Recensione il corridoio della paura regia di Samuel Fuller USA 1963
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Recensione il corridoio della paura (1963)

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locandina del film IL CORRIDOIO DELLA PAURA

Immagine tratta dal film IL CORRIDOIO DELLA PAURA

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Johnny Barrett, giornalista ambizioso mirante al premio Pulitzer, decide di farsi internare in un ospedale psichiatrico fingendo di essere un feticista ossessionato dalla passione per sua sorella, in realtà la fidanzata Cathy, per poter indagare dall'interno su un caso di omicidio. Tramite i contatti con tre testimoni oculari dell'atto criminoso, cercherà di risalire all'identità del colpevole, ma si ritroverà a combattere per la sua stessa sanità mentale.

Un noir d'altri tempi che conserva ancora il suo carattere inquietante e coinvolgente nonostante l'età. Una vera e propria, letterale e metaforica, discesa agli inferi di un protagonista emblematico e comunicativo di un tema ben preciso, come di rimando i tre pazienti dell'ospedale con i quali entra in contatto. Sembra quasi che Fuller, partendo dalle basi del genere (il protagonista che con voce narrante ci accompagna lungo il racconto dei fatti che gli sono accaduti), voglia in realtà porre le fondamenta per dei sottotesti di notevole portata a partire dalla pericolosità insita nello sfrenato desiderio di carriera e rivalsa personale, incarnato alla perfezione dal percorso delirante compiuto dal protagonista, fino ad arrivare a dei veri e propri tarli della cultura, della storia e della società americana.

Ecco che allora i tre pazienti, testimoni dell'omicidio che potrebbe essere considerato anche una specie di McGuffin hitckoockiano, si presentano come metafore di questi tempi scottanti e, se vogliamo, ancora attuali in qualche modo. Loro sono: un veterano della Guerra in Corea che aveva disertato ed era passato dalla parte dei comunisti, ora convinto di essere un generale in azione; un ragazzo di colore convinto di essere il fondatore del Ku Klux Klan che incita tutti i suoi compagni al razzismo e all'americanismo dei bianchi, in seguito al fatto di essere stato sfruttato a suo tempo come cavia per gli esperimenti di integrazione razziale nelle scuole; e uno scienziato premio Nobel, inventore di alcune armi di distruzione di massa e impegnato nel nucleare, ora regredito allo stadio infantile, desideroso solo di giocare con gli altri pazienti e di disegnare. Tre personaggi che dunque sono metafora del razzismo e dell'intolleranza, dell'anti-comunismo sfrenato ed esagerato e della scienza incontrollata e pericolosa.

Partendo dalla storia di questo giornalista, che rischia il rapporto con l'amata fidanzata (la donna gli appare in sogno le prime notti, ammonendolo per averla abbandonata, ossessionandolo con il pericolo di darsi a qualcun altro, visto anche il lavoro di ballerina in un night club), oltre alla sua stessa sanità mentale, Fuller ci racconta la natura contorta, ma anche difensiva, della mente umana e i meccanismi che essa può costruire per non dover affrontare e vivere una realtà opprimente e deludente. È quello che fanno i vari protagonisti de "Il corridoio della paura", ed è quello che farà il giornalista stesso, man mano che, dopo i vari colloqui deliranti e surreali con i vari pazienti, giungerà sempre più alla risoluzione del caso. Ogni volta che avrà un colloquio con i testimoni dell'omicidio, che di tanto in tanto hanno degli emozionanti e a loro modo inquietanti lampi di lucidità, il protagonista precipiterà sempre più nella spirale del delirio, proprio perché gli interlocutori non riusciranno a dirgli tutto ciò di cui ha bisogno, sprofondando nuovamente nella catarsi, nel caos totale, nella dissociazione dalla realtà. La stessa che lo colpirà in prima persona, in un difficilissimo equilibrio tra presenza di spirito e debolezza mentale. Rimane impresso, tra i tanti momenti topici della pellicola, il finale in cui ci sarà dato modo di osservare gli effetti devastanti del contatto di una mente apparentemente sana (quali sono le menti sane poi? Sembra essere anche questo un quesito che Fuller vuole lanciare con il suo film), con un ambiente distorto e malato.

Tra le tante sequenze che sfiorano quasi l'orroristico è da citare sicuramente quella in cui il povero giornalista, impegnato nelle sue indagini per lui di capitale importanza, viene letteralmente assalito da un'orda di ninfomani che lo atterrano assatanate mordendolo ovunque. Molto interessanti anche i ricordi, quasi onirici, di alcuni dei pazienti con i quali il protagonista interagisce, ricordi che testimoniano dei loro lampi di lucidità e del loro essere precipitati nella "pazzia" più che altro per dimenticare degli avvenimenti dolorosi e troppo difficili da sopportare.
Con un bianco e nero elegante ed adeguato, oltre che con una regia al servizio della storia, con momenti altrettanto deliranti come le menti dei protagonisti, Fuller ci accompagna all'interno di questo corridoio dove, allo stesso modo dei pazienti, letteralmente, e dei tarli della società americana, metaforicamente, veniamo imprigionati anche noi nello stesso doppio tipo di visione e di coinvolgimento, letterale e metaforico, appunto. Un cinema altamente politico, che si veste da noir in primis e da "pellicola manicomiale" in secondo stadio, che in realtà è soprattutto un'occasione per riflettere profondamente e intensamente sulla complessità e la ricchezza della natura umana, ma anche sulle nefandezze di cui essa, a volte, sa essere capace.

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Recensione a cura di A. Cavisi - aggiornata al 15/07/2010 18.42.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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