Recensione un alibi perfetto regia di Peter Hyams USA 2009
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Recensione un alibi perfetto (2009)

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locandina del film UN ALIBI PERFETTO

Immagine tratta dal film UN ALIBI PERFETTO

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Immagine tratta dal film UN ALIBI PERFETTO

Immagine tratta dal film UN ALIBI PERFETTO

Immagine tratta dal film UN ALIBI PERFETTO
 

C.J. Nicholas (Jesse Metcalfe) è un reporter televisivo che lavora per le "grandi inchieste" del Canale 8.
I suoi preziosi servizi riferiscono sulla scelta della più opportuna miscela di caffè o sulle fantastiche mostre canine della zona. Il peggio è che, durante le riprese, deve sempre avere il sorriso stampato in faccia.
E' fin troppo evidente che è un'attività troppo angusta per un giovane ambizioso come lui. Il suo sogno non è quello di prestare servizi per la rete televisiva della Louisiana (che, attualmente, è lo Stato che offre i maggiori benefici fiscali per le produzioni che decidono di girare in loco e nel film c'è anche un riferimento diretto all'uragano Katrina, n.d.a.).
Appena può, il giovane cronista va di corsa a vedere le arringhe del diligente e autoritario procuratore distrettuale Mark Hunter (Michael Douglas): c'è qualcosa che lo affascina, e che lo turba al tempo stesso, nei modi coi quali il legale procede nel suo lavoro, svolto tramite lo sfoggio di una bravura dialettica notevole e l'esibizione di prove incontrovertibili. Forse troppo innegabili.
In C.J. si insinua il forte dubbio che Hunter sia corrotto ed essendo annoiato e in cerca dello scoop della vita comincia a indagare...

Scritta, diretta e degnamente fotografata da Peter Hyams, il quale ritorna a lavorare con Douglas dopo il lontano "Condannato a morte per mancanza di indizi" del 1983, la pellicola scava tra la corruzione nella giustizia, nei dipartimenti di polizia e tra le righe delle colonne giornalistiche, prendendo spunto dall'originale "Beyond a reasonable doubt" di Fritz Lang (uscito nel nostro paese con il titolo "L'alibi era perfetto"), l'ultimo film girato in terra statunitense dal grande autore viennese nel 1956.
Il prototipo langhiano era una lievissima meditazione sul peccato, sul concetto di crimine e sulla parzialità della pena di morte, di matrice solenne, quasi minimalista.
Il rifacimento odierno riprende l'aspetto esteriore ma non il ragionamento complesso, mira di più all'intrattenimento, gettando sulla scena un numero maggiore di personaggi e moltiplicando gli accadimenti.

Michael Douglas più invecchia e più assomiglia fisicamente a suo padre, anche se a 65 anni sembra, con rispetto parlando, un po' incartapecorito. Per quanto concerne il carisma e l'efficacia della sua recitazione c'è da dire che lascia un po' a desiderare.
Si dirà che i soggetti non sono gli stessi di quelli offerti al padre; forse è più corretto dire che ognuno ottiene quello che merita e Michael offre, in questo caso come in tanti altri, un'interpretazione piuttosto anonima.
Jesse Metcalfe ha dalla sua occhi penetranti e furbi che ricordano quelli di Jim Hutton, il popolare Ellery Queen della serie televisiva. E' un piacione dallo sguardo malizioso ereditato dall'apparizione sexy nel serial tv "Desperate Housewives".
Il suo personaggio, così come la resa sul grande schermo, è giovane; l'idea che rimane è che Jesse debba maturare ancora un po' per poter sostenere ruoli così difficili e al centro dell'attenzione.

La storia d'amore che C.J. ha con la collaboratrice di Hunter appare un po' forzata e intralcia lo snodarsi della narrazione, è come un fastidioso insetto che vola all'altezza del viso e che distrae l'attenzione dalle vicende principali.
Per di più, ci sono delle deficienze di sceneggiatura grossolane: la copia del videotape lasciato a casa piuttosto che tenuto a portata di mano in tribunale, il conseguente inseguimento automobilistico rimasto "impunito", l'inettitudine dell'entourage del procuratore nel non essere troppo scrupoloso in rapporto a loro certi collaboratori, un appartamento rigirato come un calzino che non viene più menzionato come possibile prova indiziaria.
Il film si sgretola progressivamente sotto il peso delle troppe frecce caricate al proprio arco.

Incatenato mani e piedi, "Un alibi perfetto" sembra avviarsi verso un prevedibile finale, tuttavia insinua nello spettatore un non so che di inquietante e sottilmente minaccioso: corridoi vuoti dove far risuonare scarpe coi tacchi, telefonate nel cuore della notte, coinvolgimento a effetto domino di un numero progressivo di potenziali vittime.
In questo, il film di Hyams è un onesto prodotto di intrattenimento che si chiude in maniera troppo precipitosa.
Un suggerimento per risolvere il mistero: qual è la tipica espressione che compare nelle targhette appese ai cancelli quando si vuole mettere in guardia dai più famosi animali domestici?

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Recensione a cura di pompiere - aggiornata al 18/11/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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