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Il “figlio” più celebre della penna di Tiziano Sclavi, Dylan Dog l’indagatore dell’incubo, ha fatto una grande carriera; da un romanzo, a un fumetto, fino alla versione cinematografica, che però rispetto al libro risulta molto soft in quanto alcune fra le scene più crude sono state alleggerite o addirittura omesse.
Ma l’affascinante e insipiegabilmente scettico Dylan Dog non è sempre vissuto nella english house rappresentata nel fumetto che tutti conoscono e soprattutto non ha sempre dato la caccia a terrificanti demoni o a oggetti maledetti. Nel film, DellAmore DellaMorte, come nell’omonimo libro, siamo in una piccola cittadina del nord d’Italia, Boffalora. Soleggiata, tranquilla, con la sua chiesetta, la piazzola dove tutti si ritrovano, il piccolo bar con tavolini all’aperto, la posta, la scuola, il cimitero... Ma questo cimitero non è come gli altri, e i suoi “inquilini” sono tutt’altro che quieti.
Francesco DellaMorte (l’affascinante Rupert Everett), guardiano del camposanto (ecco cosa faceva Dylan Dog quando ancora non era famoso), assieme col suo aiutante muto Gnaghi (mimica disgustosamente caratteristica) riceve delle strane visite nella sua casetta sgangherata all’interno del cimitero e si trova a fare un’amara scoperta: i morti entro, sette giorni dalla dipartita, tornano sulla terra e hanno come unico istinto uno spietato cannibalismo.
“L’unico modo per distruggere i Ritornanti (così mi piace chiamarli) è rompere loro la testa, con una pallottola o qualcosa di simile” così spiega Francesco DellaMorte il suo mestiere, che ben presto diventerà un vero e proprio stile di vita. Ma nel cuore del signor DellaMorte c’è ancora spazio per l’amore, una vera ossessione, soprattutto considerando il fatto che lui non lo cerca assolutamente ma gli sbatte davanti per ben tre volte di seguito. Prima una bellissima vedova con una perversa attrazione verso le tombe e gli ossari (Anna Falchi), che gli si riproporrà poi sotto sembianze cadaveriche (nonostante lei sia fin troppo carnosa per la parte). Poi l’innocente segretaria del nuovo sindaco di Boffalora (sempre Anna Falchi, per nulla convincente nel ruolo di una giovane donna terrorizzata al solo pensiero dei “terribili” attributi maschili) per la quale Francesco arriverà a privarsi della sua virilità. Infine una giovane studentessa che per mantenersi gli studi fa fruttare i ferri del mestiere che madre natura le ha donato (rullo di tamburi... sempre Anna Falchi in questo ruolo).
Tutti e tre i suoi amori si dissolveranno in una profonda delusione per il nostro Francesco che sarà l’artefice della morte di ben due delle tre ragazze. Questo gli causerà la rottura del sottile filo che costituisce la coscienza della differenza fra vivi e morti: tutto perde di importanza, ormai uccidere è routine, e la cosa più sconvolgente è che non lo fa per senso del dovere, per odio, per amore... No, sarà l’indifferenza che lo spingerà ad uccidere. Ed il film negli ultimi 15 minuti è tutto avvolto in questa indifferenza, non gli interessa di chi uccide e alla gente non interessa che lui uccida, come quasi se non lo credessero capace di fare una cosa del genere.. “fra morti viventi e vivi morenti” ora non c’è più differenza, entrambi non sono nessuno, cibo per vermi, cannibali insaziabili che si nutrono di illusioni, illusioni di una vita, dell’amore... Ma l’amore non c’è, non per Francesco. E allora a cosa serve vivere? Se l’amore non c’è, non c’è vita ma Francesco non è morto perché lui è la Morte, “la morte puttana” che estirpa via la vita senza chiedere il permesso.
Per trovare la vita deve lasciarsi dietro tutta la morte che ha sparso, ed eccolo salire sul Volkswagen bianco (diventato celebre anche nel fumetto) per poi allontanarsi ed immergersi, solo nell’atto di andarsene via, in un’atmosfera più leggera e allegra. Una curiosità quasi infantile lo tormenta: “come sarà il resto del mondo?”. Proprio come si chiede il suo unico amico vivo, Franco, l’impiegato della posta... In preda ad un raptus di pazzia uccide la moglie e la figlia tentando poi il suicidio proprio la notte in cui Francesco dà fuoco alla casa delle studentesse prostitute lasciandole morire intrappolate fra le fiamme, “rubandogli” il delitto. Ma questo nel film credo sia solo una scusa per far impazzire del tutto Francesco, rendendo benissimo il disagio mentale con la Malatissima scena nella camera d’ospedale dove Franco è ricoverato in coma. E una semplice visita notturna a un amico si trasforma in un massacro comicamente spietato. Nessuno poi sospetterà di lui... perché Boffalora ha un batterio dentro come poco sopra scrivo, L’indifferenza.
E fuggendo dalla morte, dall’indifferenza, dalla delusione Francesco attraversa il tunnel che lo divide dal resto del mondo... Ma all’uscita l’aspetterà un’inaspettata sorpresa che gli impedirà di compiere la sua fuga e gli farà capire che fuggire è inutile... morale della favola (soprattutto della scena finale): se il mondo ci disgusta, basta crearsi da soli un mondo a parte.
Il film è una produzione Italo-Francese e alcune cose come l’interpretazione di Masciarelli o l’idea degli zombi che parlano, guidano motociclette e soprattutto baciano, o magari gli effetti speciali un tantino “sgamati” (in ogni caso davvero ottimo quello dei bambini boyscout zombi che aprono e chiudono la bocca con un terrificante rumore di dentini da latte)... fanno perdere punti al tutto.
Ma un’atmosfera davvero surreale, scenari lugubri, malati, volutamente fittizi che rendono il film molto simile ad un fumetto, in più una certa poesia un tantino filosofeggiante del Protagonista (Fotocopia di Dylan Dog) e quel pizzico di romanticismo nero che non gusta mai fanno di questo film davvero una pellicola da non perdere, unisce lo splatter a un pizzico di riflessione.
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Recensione a cura di LilStar - aggiornata al 02/11/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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