Recensione sonatine regia di Takeshi Kitano Giappone 1993
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Recensione sonatine (1993)

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locandina del film SONATINE

Immagine tratta dal film SONATINE

Immagine tratta dal film SONATINE

Immagine tratta dal film SONATINE

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Immagine tratta dal film SONATINE
 

Per fortuna, presto o tardi, ci si accorge comunque delle opere che hanno un valore. Takeshi Kitano alla fine riesce a raggiungere l'attenzione meritata proprio grazie a "Sonatine". Una rilevanza ancora debole, perché dobbiamo aspettare "Hana-bi" per vederne sbocciare la considerazione, ma è pur sempre un inizio. "Sonatine" non ha riscontro in patria e approda timidamente in alcuni piccoli teatri francesi in cui la proiezione di avvale quasi esclusivamente di un pubblico del ramo, finché l'editore Jean-Pierre Dionnet non si danna l'anima per cercare di far notare Kitano e le sue opere. Alla fine "Sonatine" riesce comunque a raggiungere gli ambienti consoni, presentato al Festival di Cannes nella sezione "Un certain regard" e al Festival du Film Policier de Cognac nel 1995, ma soprattutto al Festival Internazionale del Cinema di Taormina nel 1993, scoperto dal direttore Enrico Ghezzi, dove vince.

Murakawa è uno yakuza stanco di volerlo essere. Il boss ordina a lui e ai suoi uomini di andare nella distante isola di Okinawa a sedare una rivalità tra gang. Il compito è semplice e sembra poter essere tranquillo. Murakawa però capisce presto di essere stato messo al bando perché scomodo ai suoi superiori per la ricchezza e il potere accumulati e, percependo un'esecuzione a breve, decide di attendere la fine placidamente.

Con questo film si ha la possibilità di vedere la creatività e il talento di Kitano a tutto tondo: assume infatti contemporaneamente la responsabilità della regia, della sceneggiatura e del montaggio oltre a vederlo nei panni del protagonista Murakawa. Il mondo di Kitano è sicuramente particolare, ma una volta individuato è difficile non rimanerne catturati. Individuarlo semmai, può essere un problema e un'insormontabile avversità da "selezione occidentale". In termini più chiari, si può prevedere che chi è abituato alla struttura narrativa occidentale può rimanere disorientato e inebetito di fronte all'abisso con le manifestazioni di sensibilità orientali, tanto da denigrarle e accantonarle vita natural durante. L'affanno della scalata al successo dei film di Kitano ne è l'esempio più lampante. La casa di produzione giapponese Shochiku classificò "Sonatine" troppo giapponese anche per i giapponesi stessi e anche oggi, dopo i suoi successi mondiali,questi ultimi tendono a preferire il Beat Takeshi comico e conduttore televisivo.

Eppure basta dargli la giusta attenzione e lasciarsi guidare dalle immagini, dai silenzi e da Kitano stesso. Il motivo gangster in salsa nipponica è il sottofondo su cui ruota tutta la vicenda. Murakawa si muove coi suoi uomini, dà ordini e ne subisce altri. Le scene d'azione ammiccano al genere, concentrate soprattutto all'inizio e alla fine. Ma questo non è propriamente un action movie e non c'è da aspettarsi un'atmosfera da "uomini duri che fanno la vita da malavitosi" a cui ci hanno abituato gli standard americani. L'azione è appunto presente, le sparatorie non mancano, così come c'è un pullulare di morti da fare invidia a "Il Padrino". Ma, come qualcuno ha notato, l'eleganza con cui sono inserite tali scene non è classificabile né paragonabile ad altri film. Kitano rende armonioso persino il suicidio. Il dettaglio diviene ossessione e dogma in ogni inquadratura e movenza.

Alla violenza, armoniosa sì ma non per questo meno cruenta, Kitano affianca scene di natura solitaria e silente, in cui sono ammessi al massimo una macchina o un paio di individui per volta. Ad una prima parte ricca di scene attive, volte a collocare il contesto yakuza nella storia con sparatorie e questioni terrene, segue una seconda, che è poi quella centrale, in cui tutto muta a sostegno dello stato d'animo del protagonista. Murakawa esce dalla sua "dimensione yakuza" di uomo navigato e indurito dalla vita criminale per adagiarsi alla calma dell'attesa, alla rassegnazione alla fine. Questo mutamento non è netto e soprattutto non avviene nei termini prevedibili. Murakawa attende velato dall'angoscia e dall'ansia ma non passivamente. Con i suoi staziona in una casa sulla spiaggia dove ritorna bambino, o meglio, ritrova un'innocenza e una spensieratezza da tempo perdute. La vita di uomo della yakuza non ha spazio per leggerezze e il protagonista rivelerà di aver abbandonato presto le gioie della giovinezza raccontando di aver ucciso il padre al liceo. L'innocenza e l'allegria non hanno soggiornato molto nella sua mente. L'angoscia della morte fa riemergere la necessità di ritrovare un tempo del gioco e dello scherzo probabilmente mai vissuti pienamente. Murakawa anima giornate statiche e silenziose con piccole trovate infantili, dei veri e propri incanti magici di semplicità. Dai fuochi d'artificio alle buche nella sabbia per sorprendere i suoi compagni d'attesa, si raggiunge l'apoteosi con la simulazione di un incontro di Sumo, prima con degli omini di carta e poi riproducendo quella stessa teatralità dal vivo, come un gioco nel gioco. Questi divertimenti innocenti, di una purezza immensa, esorcizzano la paura della morte e al contempo esorcizzano il film stesso dalla banalità, caricandone ogni frammento visivo di poesia e delicatezza.

La finezza con cui Kitano cura le inquadrature riporta ad una dimensione onirica, come può essere appunto quella di un poeta che guida l'attenzione verso un mondo suo, in questo caso fatto di quiete e sobrietà peculiari. Paesaggi e silenzi scandiscono lo stato d'animo del protagonista in una continua danza alternata tra orrore e spensieratezza. Una strada deserta immersa nel verde diviene attesa e pace contemporaneamente, inizio e termine all'infinito.

La spiaggia, elemento caratteristico del cinema di Kitano, rappresenta un confine tra la realtà di Murakawa e il suo io. La spiaggia realizza la sua innocenza ed esprime i suoi rapporti personali, il mondo sereno che egli vuole avere attorno a sé, ora che ha percepito il sentore della fine. Il mare è un movimentato io in preda all'angoscia, ai turbamenti e alle irrequietezze che questi comportano. I suoi incubi, come onde marine, lo scuotono e fremono nonostante la calma della spiaggia, apparente realtà. Quell'acqua, salata e infinita, è una sorta di panta rei, un moto continuo in cui tutto scorre, a dispetto dell'illusione di calma e di atemporalità che quella spiaggia vuole far credere possibile. Nella sabbia Murakawa sfida e scherza con i suoi uomini, salva una ragazza da uno stupro, osserva istanti di vita degli altri, ma scopre pure che tutto finisce, a partire dalla vita stessa; seduto dietro una barca rovesciata, vede morire davanti a sé il suo uomo di fiducia che un istante prima rideva, in quell'incoscienza illusoria che egli aveva creato. Quando svanisce il rifugio creato mentalmente senza potervi rimediare, uscirà dai tormenti liquidi della sua mente e abbandonerà la spiaggia per terminare se stesso su una strada deserta, inizio e fine di sogni e paure.

La sensibilità del regista strappa ogni orpello di inutile retorica e affonda tenacemente la sua forza su pause e silenzi, sugli sguardi fissi, a volte vacui a volte interrogativi, dei personaggi, affidando molto all'osservazione muta e libera dello spettatore. Kitano guida alla scoperta intima dell'attesa e ad un'idea poetica di rassegnazione, nichilista ma anche estremamente dolce, senza tuttavia nauseare mai. Ogni battuta che riesca a infilarsi timidamente in una scena già esauriente è posta in modo da non sciupare quel piccolo cosmo di perfetta beatitudine naturale. La delicatezza della scena in cui Murakawa e la ragazza si ritrovano sotto un albero durante una pioggia passeggera arriva ai livelli massimi.

L'osservazione è sicuramente la miglior chiave di lettura per l'interpretazione e la fruizione del pensiero di Kitano. Siamo chiamati ad ammirare una silenziosa natura e l'inesorabile fato di una vita fatta di trappole meschine. La magnificenza della pace a cui ci fa abituare Kitano non può nulla sulla chiamata alla morte e alla disfatta di Murakawa e compagni. L'assoluto è questo: l'illusione di una gioia terrena, seppur semplice ma di perfetta bellezza, destinata a finire, come la vita stessa. La disperazione è tangibile, tanto è esasperata, ma non gli viene permesso di soffocare l'illusione. L'angoscia di Murakawa è ciò che scatena il meccanismo, ma il tutto non potrebbe sembrare più armonioso. È difficile poter descrivere la calibratura della combinazione tra disperazione e serenità che Kitano attua perché la si avverte fortemente ma senza essere in grado di afferrarne l'essenza con parole precise.

Il regista si rivela un ottimo esorcista della morte. Questa tematica, così incisiva sui fatti della vicenda è stigmatizzata dalla terapia del gioco di Murakawa. La paura viene messa all'angolo infatti da trovate scherzose e ingredienti comici molto originali. La deformazione professionale di Beat Takeshi, quello comico e intrattenitore, si arma dei motivi in stile slapstick (denominazione delle gag a cui fa da capostipite la classica scivolata da buccia di banana), tipici del cinema muto. Quella comicità immediata, fatta di fisicità e ilarità che fa a meno delle parole, contribuisce indubbiamente ad arricchire la sostanza della struttura. Non c'è banalità e non vi si può trovare pesantezza e insistenza nelle proposte comiche di Kitano: tutto rientra in un ordine che non varca mai il confine dell'insensatezza. C'è inoltre da aggiungere che lo humour del regista, miscela della cultura giapponese e della sua naturale ironia, è il perno tra le gag e il loro successo nelle scene. Uno stile all'apparenza elementare ma geniale nella combinazione degli elementi.

Da segnalare due richiami per i nippo-cinefili: molti critici hanno ritrovato in "Sonatine" un omaggio al regista Kinji Fukasaku, di cui Kitano è grande ammiratore, e più in particolare al film "Sympathy for the Underdog", per la stessa ambientazione ad Okinawa e alcune somiglianze con i personaggi. Inoltre la scena dello stupro è, al contrario, ripresa in maniera molto simile nel film di Takashi Miike "Ichi the Killer".

Di fronte ad un opera cinematografica di tale levatura è bene che anche i meno avvezzi alla visione e alle concezioni emozionali del cinema asiatico sacrifichino la loro ignoranza in materia in nome dell'arte. Lo stile di Kitano può essere di difficile comprensione per chi è infatti abituato ad uno stile cine-occidentale degli avvenimenti, anestetizzato da spiegazioni finali analizzate e scarnificate fino all'osso, finché nulla rimane al singolo su cui riflettere. Osservare Kitano è un traguardo per chi decide di aprire la mente ad un cinema diverso, che, senza imprigionare la sensibilità ad un solo valore e a un'unica interpretazione plausibile, ci guida verso una nuova concezione di poesia.

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Recensione a cura di ele*noir - aggiornata al 10/07/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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