Recensione l'ultima onda regia di Peter Weir Australia 1977
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Recensione l'ultima onda (1977)

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locandina del film L'ULTIMA ONDA

Immagine tratta dal film L'ULTIMA ONDA

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C'è un qualcosa di sublime nello scoprire che un noto regista che si tende ad adorare per taluni capolavori abbia, nei primordi della sua carriera, partorito gemme di valore ancora più grande rispetto ai film che normalmente qualificano il regista in esame come superbo. Ancor più sublime quando il soggetto in questione è l'australiano Peter Weir, assurto alla fama mondiale con film dal calibro di "Witness", "The Truman show" e "L'attimo fuggente".
Ma se fossimo capaci di celare per un sol momento il Weir gran mattatore di pubblico e fagocitatore di oscar, scopriremmo il Weir nudo, animato da una forza comunicativa di raro spessore, selvaggio come il suo cinema delle origini, sincero e profetico come non lo sarà più. Del resto il fuoco che arde maggiormente brucia più in fretta, forgiando con insolita vitalità due film tenuti insieme da un'aura mistica, sacrale.

I due film sono "Picnic ad Hangin Rock" e "L'ultima onda", due modi diversi per affrontare la medesima enunciazione e idealmente un'unica opera. Il tratto caratteristico di un Autore, ciò che lo distingue da un semplice regista, è giustappunto la presenza di un tema che anima e nutre le sue pellicole; e Weir sta al naturalismo come Miyazaki sta all'ecologismo. O perlomeno stava, perché il "grado zero" del cinema del valente australiano sta completamente in quei due film. Il resto è tuttalpiù, una nutrita salva di pellicole per compiacere più gli altri che non sè stessi; fatti i capolavori che mettono il proprio animo in pace, di solito si pensa a quello degli altri. Perché solo l'amore nei confronti della sincerità che un autore prova verso la propria idea può dar vita all'afflato plasmante un capolavoro che resisterà all'erosione che la memoria attiva. Le opere, anzi, i film insinceri saranno puniti con l'oblio.
"L'ultima onda", classe '77, sopravvivrà finché si avrà memoria di un cinema "alto", non banale, non scontato. E' purtroppo un raro caso che il medio avventore di videoteche possa conoscere questo film, anche a causa della pessima distribuzione che ha sempre avuto in suolo italico. Ma, per fortuna, la storia del cinema è costellata e composta principalmente da opere ignote ai più. Sussiste quindi la condizione per il capolavoro, ovvero la semiclandestinità; "L'ultima onda" è infatti un film che sprona all'intimità, e fa desiderare allo spettatore di rientrare nella ristretta élite che lo conosce, lo ha visionato, ed è stato in grado di apprezzarlo. Certe cose non si condividono.

La trama è semplice, lineare e di una brevità sconcertante. Ma a che serve una trama ricca di colpi di scena e che gioca sulle aspettative frustrate dello spettatore, quando chi deve dar corpo alle immagini su pellicola possiede tanta forza creativa da stordire emotivamente l'osservatore e avviare così un rapporto non di identificazione ma di empatia? A nulla. E non si sta parlando di identificazioni primarie o secondarie, col personaggio principale piuttosto che quello secondario; il rapporto d'empatia scatta nei confronti della pellicola nel suo darsi onnicomprensivamente, come un panteismo su celluloide in grado di sospendere il mondo intorno rendendo come unicamente possibile quello su schermo. La trama è semplice pretesto al deflagrare di emozioni che avvolgono e stordiscono, ma chi ha detto che la narrazione è il principio generante del cinema? Non sono forse quelle immagini che si muovono a 24 fotogrammi al secondo?
Per coloro che non riescono a farne a meno: Un giovane avvocato (Richard Chamberlain) deve difendere un gruppo di aborigeni dall'accusa di omicidio. Ma qualcosa lo angustia; incubi terribili che hanno come comun denominatore l'acqua, o meglio la sua potenza distruttrice. Presto l'avvocato scoprirà di essere l'inconsapevole profeta della fine di un'era, predicendo la fine del mondo. O perlomeno dell'uomo così come lo conosciamo.

"L'ultima onda" è una brutta bestia se si cerca di afferrarlo per vedere "com'è fatto dentro". Teoricamente sarebbe un disaster movie ("The day after", "Earthquake", "Armageddon", "L'alba del giorno prima"), ma sfiora la categoria appena. Giusto il tempo di attraversarla, mutarne alcuni codici e servirsene per incidere la propria Storia personale. E'un film apocalittico? Ma l'apocalisse è un monito all'era che ha ucciso sè stessa, seppellendo i sogni con il materiale grigiume della modern life, e comunque l'apocalisse in questione è "buona" perché renderà il terreno fertile alla prossima era, che si spera sia qualcosa di migliore.
Non c'è nulla da fare, "L'ultima onda" resta un'opera che si nutre della sua stessa unicità, dove la riflessione filosofica è da intendersi parte attiva tanto quanto è richiesta in "2001: odissea nello spazio".

L'acqua, elemento scelto attraverso il quale l'attuale ciclo avrà termine, è onnipresente. L'autentica protagonista? Forse. Fatto sta che è difficile che passi qualche sequenza senza che l'acqua, essenziale, rasserenante e dispensatrice di morte non faccia capolino.
A cominciare dal brillante incipit nella scuola (con tempi registici che sembrano rimandare alla costruzione dell'attesa cara a Leone), che porta in seno l'enunciazione principale del film. Nel torrido deserto australiano non piove quasi mai, specialmente in novembre, momento in cui accade il fatto. Una scolaresca gioca con la solita spensierata allegria, quando il terso cielo versa pioggia in gran quantità e la maestra fa entrare tutti dentro. Mentre si discute e si scherza sull'insolita mole d'acqua, ecco che la grandine inizia a precipitare, con noci di ghiaccio esageratamente grosse. Una di esse trafigge e distrugge un vetro, che taglia il collo ad un bambino. Nessuno scherza più, e il clima genera una situazione incontrollabile. Particolare inquietante, una capra nera trascinata dentro che rimane lì, sotto gli attacchi della grandine. Quest'inizio è un film nel film, una sorta di cortometraggio de "L'ultima onda". Tutte le caratteristiche son presenti: la situazione di calma apparente, il presentarsi dell'imprevisto che inizialmente viene semplicemente osservato. Il pericolo in seguito, e il simbolo di morte annunciato dal capro nero.

Solo in seguito la diegesi si sposta tra i personaggi che prenderanno parte alla vicenda dove il giovane avvocato inizierà la sua discesa agli inferi, paradossalmente rappresentata non dal fuoco ma, come già detto, dall'acqua. Sia essa reale che sognata, anche se ben presto le due dimensioni tenderanno ad accavallarsi.
Gli incubi dell'avvocato si manifestano sempre più frequentemente, inspiegabili, almeno finché un giovane aborigeno non deciderà di stare dalla sua parte. Lo stesso aborigeno che l'avvocato ha una notte sognato. Sono troppi gli elementi per cui possa decidere di non prendere tutto sul serio, e la sua indagine sul mondo aborigeno e su sè stesso condurrà all'ultima sapienza, oltre la quale solo l'annichilimento sarà contemplato.
I sogni non sono solo quelli avuti dall'avvocato, ma il loro insieme costituisce quello che è il "dreamtime", ovvero il mondo dei sogni.
L'aborigeno spiega infatti all'avvocato che la loro cultura contempla l'esistenza di due differenti tempi: quello dei sogni e quello oggettivo.
Quest'ultimo è quello che viviamo quotidianamente, il primo accessibile a pochi e presente sin dal brodo primordiale dell'eternità; un mondo fatto di emozioni, colori, sensazioni, ma nella sua irrealtà più vero del reale, le cui manifestazioni inconsce finiscono per plasmare l'altro tempo, quello più "basso". Alcuni aborigeni, gli stregoni (qui rappresentato dall'ambiguo Charly, l'Anziano) possono fare da ponte tra le due realtà, acquisendo così una smisurata potenza. Ma non solo... al dreamtime possono accedere (e forse vi giungono) i "mulkurul". Spiriti che arrivano "dal di là", qualunque cosa questo possa significare, e che si manifestano in un essere umano ogni qualvolta la natura termini un suo ciclo e ne inizi un altro. I mulkurul sono a tutti gli effetti dei messaggeri, che portano il loro dispaccio di morte e di rinascita contemporaneamente.

Comprensibilmente la cosa tende ad inquietare lo stregone Charly, che osserva con minaccia e rispetto l'avvocato, il presunto nunzio dell'apocalisse. L'avvocato accetta il suo ruolo, dal momento che tutti gli indizi sembrano avvalorare l'ipotesi. Ma per farlo deve compiere l'ultimo passo verso il basso; violare il segreto degli aborigeni, un segreto noto solo agli stregoni. E per farlo sarà necessario il tradimento del giovane aborigeno, che si impossessa così di un segreto che gli appartiene da sempre e che gli era ironicamente ignoto.
L'avvocato si rende così conto che la materia di cui sono fatti i suoi sogni -l'acqua- è la stessa materia che aprirà il varco ad un nuovo ciclo terrestre, confermando il fatto che i suoi incubi altro non erano che manifestazioni del dreamtime anticipatori di ciò che sarebbe inevitabilmente accaduto.
In un'impressionante sequenza l'avvocato aveva "visto" la sua Sidney totalmente immersa dall'oceano, con automobili e cittadini che vi galleggiavano dentro. Ora può star sicuro che la sua previsione ha terreno fertile, dal momento che "il segreto", scritto sulla roccia, è in tal senso eloquente.
E il segreto, terribile, è noto solo agli stregoni e a lui, sfortunato e involontario profeta. Vite intere a cercare di vivere secondo la "Legge" aborigena, che vuole la morte di chi tenti di violarlo, quando la sua custodia è invece garanzia di vita. Una volta svelato, il segreto porta alla morte; oltre quelle scritte nel muro per la nostra era non potrà esserci più nulla. Le primi scritte sono anche le ultime.
E l'ultima, straziante, immagine dell'avvocato è nel pieno del giorno (che contrasta fortemente con la sacrale penombra della grotta), in ginocchio sulla spiaggia, davanti all'oceano. Gli occhi gli si chiudono per un istante, una immensa onda inquadrata dal basso compare; poi nuovamente l'avvocato.

E infine il nulla; il momento della catastrofe ci è negato. Per nostra fortuna, verrebbe da dire. A Weir non interessano le sistematiche distruzioni di mondi tanto care a Hollywood, bensì l'attesa che ciò avvenga. Sul volto dell'avvocato notiamo il formarsi di un'ombra, poi l'onda. Possiamo intuire che sia l'ombra dell'ultima onda, ma successivamente notiamo che essa svanisce dal volto dell'ottimo Chamberlain. Ancora una volta le due dimensioni si intrecciano, e possiamo solo intuire la gigantesca onda che ingoierà tutto, trapassando e penetrando l'umanità nel suo insieme, come un coito che genererà una nuova vita.
Un disaster movie senza disatro? Ben venga; l'angoscia di una determinata situazione, per quanto spiacevole possa essere, è foriera di caleidoscopiche emozioni che scuotono in maniera indiscutibilmente efficace. L'ansia inevitabilmente sparisce a tragedia manifesta, e si sostituisce con altro.
L'immanenza della tragedia genera adrenalina, la tragedia in sè può solo essere subita. Un meccanismo che Weir conosce bene, collaudato ai massimi sistemi nell'incredibile esordio "Picnic ad Hangin Rock". Ed è curioso notare come la visione finale, osservata nel mondo dei sogni dall'avvocato, ci è negata così come agli aborigeni è negato l'accesso al segreto. Questi ultimi e gli spettatori si improvvisano complici involontari del fatto di condividere un qualcosa senza conoscerlo; di essere a conoscenza di un segreto, ma di ignorarne il contenuto. Una volta che questo è svelato, la fine incombe. Per i nativi (ma a questo punto per tutti) la morte; per lo spettatore la fine del film.

Film talmente intenso che quasi non ci si crede. Ma la forza di Weir non sta tanto, come si è detto, sulla trama. E la regia, francamente, non è nulla di che.
Il Weir regista fa il suo mestiere, senza esagerare e senza osare. Dove osa è con l'immaginazione, con l'invenzione e la fantasia che nutre il suo ricco mondo interiore, il suo dreamtime personale, tanto che potremmo supporre che Weir abbia cavato il film da lì.
Non si fatica ad immaginare che le sequenze in cui il regista australiano si trovi più a suo agio siano infatti quelle oniriche, puramente emozionali e slegate da qualsiasi impianto narrativo classicamente inteso. La già citata sequenza della città sommersa, le apparizioni di Charly, i vari fenomeni inspiegabili sono abbastanza eloquenti in tal senso. La regia senza caratteristiche di sorta e tutto sommato abbastanza piatta è pronta a decollare non appena l'inquietudine bussa alla porta. Subito un'evocativa e bellissima (come in "Picnic") colonna sonora si manifesta all'orecchio del teso spettatore e, unita questa alla perizia di Weir, lo conducono verso il trionfo del cinema; la vittoria dell'immagine sulla parola.
Al di là di tutto questo, non va trascurata l'anima naturalista del film. Weir si è sempre mostrato sensibile verso certi temi come lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo che produce industria e cultura standardizzata a discapito della natura e della sua intrinseca semplicità, ma rifugge dalla critica sociale vera e propria. E'questo che rende il suo naturalismo differente dall'ecologismo di un Miyazaki; Weir non sembra dare soluzioni, ma si limita a mostrare le oniriche e immaginarie conseguenze della perdita della capacità di riconciliarsi con sè stessi.

E se in "Picnic ad Hangin Rock" filmava un'oscura storia senza soluzione di continuità nella quale lo straordinario irrompeva in un collegio femminile e alcune ragazze letteralmente svanivano nella montagna, qui c'è spazio per una riflessione più ampia e tangibile. Il popolo aborigeno è uno dei pochi che sia sopravvissuto mantenendo in alcune zone aspetti primitivi. Gli aborigeni civilizzati non hanno comunque reciso queste radici, ma anzi per queste sono stati spesso fronteggiati dai bianchi. Ma Weir ci dice che il segreto, la saggezza, è sempre stata lì con loro. Sarebbe bastato non perdere mai di vista quel sottile contatto che unisce la carne all'erba, al sole, alla natura tutta. Sarebbe bastato che il proprio habitat non divenisse una sorta di nemico da combattere. Sarebbe bastato, forse, semplicemente ascoltare i canti della pioggia, la danza della luna, la voce delle stelle.
Ma l'ultimo suono che l'uomo ascolterà sarà quello di un'immensa onda. Come se il mondo avesse tirato l'acqua.

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Recensione a cura di cash - aggiornata al 29/09/2006

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