la tela dell'inganno (2019)

ll potere della critica, quello che ormai non c'è più. In The Burnt Orange Heresy però per un attimo torna a vivere. Viene descritto come il ponte tra l'opera e il pubblico. Il regista Giuseppe Capotondi ne esalta anche la capacità di creare immaginari, e allo stesso tempo di fuorviare. L'analisi, la cultura, e poi la capacità retorica sono un mix letale per mescolare realtà e finzione. Fino alla menzogna.
Qui siamo nel mondo dell'arte, non del cinema. E non a caso il protagonista è Claes Bang, il mattatore di The Square.
La zona franca sono i quadri, dove esiste ancora la purezza, e non si è contaminati dalle follie del mondo esterno. Quindi la scelta dell'artista può diventare quella di sottrarre il suo talento, di non mostrarlo. Per non essere manipolato, travisato, esposto nelle gallerie per interesse altrui. "Perché gli antichi dipingevano nelle grotte? Forse per nascondere le loro opere". È una questione di sguardo. Quello che non si vede conserva la sua magia, ciò che invece viene rivelato rischia di essere distrutto. L'unica via è abbattere, bruciare. Per alcuni è pazzia, per altri è l'unico modo per alimentare la leggenda.

Verità e finzione. La sequenza iniziale molto bella e giocata su un ottimo montaggio mostra quanto il potere della critica d'arte possa definire l'arte stessa, fra arte e non arte. Ma il critico non è un artista e l'artista ha sempre il grimaldello ed il potere per smontare l'inganno. Ed accade appunto il cortocircuito che tra atmosfere vagamente hitchcockiane, definisce questo film di Capotondi, dove l'inganno viene spacciato per arte fino alle estreme conseguenze alla mercè di altri critici, al pubblico e di avidi collezionisti pronti a sborsare qualsiasi cifra per possedere la cosidetta arte. E' un film sull'inganno, unthriller psicoclogico, non perfetto, per qualche situazione molto forzata, ma che rende giustizia al lavoro di Capotondi, comunque non all'altezza della Doppia ora.

Forse questo film intende essere una frecciatina ai critici d'arte che, per lavoro, devono trovare un senso recondito in ogni dipinto. Ma la storia non è solo questa: vi si scorgono anche approfondimenti sulla natura umana, sul modo di vedere le cose, sulle "maschere" di ambiguità che le persone indossano. Fà piacere rivedere sullo schermo Mick Jagger in veste d'attore che qui se le cava bene in un ruolo da diavolo tentatore e poi c'è sempre quel monumento di Sutherland che renderebbe un'opera d'arte pure un cortometraggio girato tra amici. Bellissima la Debicki. La pellicola però risulta troppo verbosa, ci mette un bel pò prima di entrare nel vivo e di far capire di cosa parla e sebbene presenti un interessante intrigo, nel finale sembra andare a cercare per forza il thriller. Bello ma non eccezionale.