Recensione amarcord regia di Federico Fellini Italia, Francia 1974
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Recensione amarcord (1974)

Voto Visitatori:   8,71 / 10 (128 voti)8,71Grafico
Voto Recensore:   10,00 / 10  10,00
Miglior film straniero
VINCITORE DI 1 PREMIO OSCAR:
Miglior film straniero
Miglior filmMigliore regia
VINCITORE DI 2 PREMI DAVID DI DONATELLO:
Miglior film, Migliore regia
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locandina del film AMARCORD

Immagine tratta dal film AMARCORD

Immagine tratta dal film AMARCORD

Immagine tratta dal film AMARCORD

Immagine tratta dal film AMARCORD

Immagine tratta dal film AMARCORD
 

Forse tanti non lo sanno ma la parola Amarcord non significa solo "Io mi ricordo": è una formula magica. Esatto, come quella che Guido continuava a ripetersi in Otto e Mezzo pescandola nella sua memoria di bambino, l'Asa Nisi Masa che contiene la parola Anima. In un momento forse di noia all'interno di un ristorante Fellini prese un tovagliolo e scrisse di getto questa nuova formula: Amarcord, "io mi ricordo" in dialetto riminese. Da quel momento Federico sa bene che questo sarà il titolo del film a cui sta lavorando con Tonino Guerra, un nuovo progetto come sempre avvolto nella segretezza e che tenta in tutti i modi di depistare fornendo notizie bomba ai giornali che si rivelano puntualmente castronerie colossali (un film di fantascienza intitolato "Hammarcord" per allontanare ogni sospetto sulla Romagna, per dirne una).

Fellini nel 1972 aveva portato nel mondo il trionfo della sua Roma personale, felliniana appunto, per poi ritirarsi in un angolo remoto della sua memoria e fare un tuffo nel passato: Amarcord è questo, un passato che c'è, tangibile eppure inventato come tanti dei miti nella carriera del maestro. Indubbiamente è enorme il contributo di Tonino Guerra nella sceneggiatura, romagnolo come Fellini ma a differenza di quest'ultimo legatissimo alla sua terra d'origine quando in realtà Federico ormai è sempre più un romano d'adozione. Questo per chiarire una volta per tutte che Amarcord non è un film autobiografico in senso stretto, non racconta per nulla l'infanzia di Federico Fellini così come è effettivamente stata, ma così come è stata immaginata. Ad esempio, tra le scene più citate e famose c'è quella del transatlantico Rex che costeggia la riviera romagnola sotto lo sguardo affascinato degli abitanti riuniti su barche per l'occasione. Ebbene, questo avvenimento non è mai accaduto in quanto il Rex non si è mai avvicinato a Rimini se non una volta sola, a fari spenti dopo la Seconda guerra mondiale.

Ma questo non significa che Fellini non abbia attinto dal proprio passato persone, ambienti, sentimenti. Il protagonista Titta Benzi è un suo vecchio amico d'infanzia da cui tante volte era stato ospite, e una volta visto il film il vero Benzi dirà che Fellini era riuscito in maniera sbalorditiva a riportare sullo schermo i gesti, i dialoghi e i rapporti che si vedono nei pranzi e nelle cene della famiglia, come se avesse memorizzato tutto. Un Benzi che già era uno dei personaggi cardine all'interno della rivista del Marc'Aurelio, dove il giovane Federico lavorò anni prima, e che qui ritorna interpretato dall'esordiente Bruno Zanin, scelto tra migliaia di ragazzi senza probabilmente avere un chissà quale talento recitativo e che oggi da parte suo malgrado della storia del cinema solo per questa pellicola. Fa parte delle cosiddette facce di Fellini, che spesso sceglieva attori e comparse senza stare troppo a badare alla loro effettiva bravura e ancora una volta qui si rivela una scelta decisiva, conferendo una particolare spontaneità alla recitazione del protagonista.

Autobiografico quindi sì, ma non esageriamo. Il motivo per cui Amarcord è uno dei film più amati nel mondo è la facilità con cui si riesce a guardare tutto questo campionario di italianità senza per questo darne un senso geografico ristretto: chi non ha mai avuto un nonno come quello di Titta, ridanciano e scorreggione, saggio e buono? E le litigate in famiglia per un futile motivo, che finiscono sempre in commedia tra capelli strappati e assurde minacce?
È la primavera della giovinezza che Fellini ritrae, la morte pare non esistere in questa provincia metafisica che può essere tanto la Romagna, quanto qualsiasi altro paesino della nostra infanzia. Sono gli scherzi, le marachelle, la politica, la scuola, l'amore e la scoperta del sesso (in maniera tipicamente fellininana, con la mostruosa tabaccaia che porge come una novella mammona il proprio seno ad un inesperto ragazzo, in un'altra sequenza capolavoro). Ma la morte poi c'è, come sempre fa capolino in maniera beffarda e inaspettata per il povero Titta. Il distacco è sempre parte del percorso che porta all'età adulta.

È un'opera che, sia chiaro, non ha alcuna pretesa storica né vuole approfondire psicologie di una miriade di personaggi a partire dal protagonista. Questi sembrano infatti usciti da un vignette umoristiche (non è un caso) e hanno tratti tipicamente macchiettistici e finti: ma questo è sempre stato l'intento di Fellini da "Otto e Mezzo" in poi, un confine che viene letteralmente cancellato dove non esiste più realtà o finzione ma tutto diviene sogno. Dall'avvocato che inizialmente ci guida nel paese guardando dritto in macchina, Fellini già insatura col pubblico un rapporto basato sulla finzione di quel che si guarda, rendendo il tutto ancora più reale paradossalmente. E il personaggio tipico, stereotipato (dal nonno alla bellona del paese) all'improvviso diviene reale più di tanti altri visti sullo schermo, lo scoviamo anche noi nella nostra memoria inventata.

Però vale la pena anche contraddire le dichiarazioni di Fellini riguardo il suo convincimento di non fare film politici; anche questa è stata spesso una bugia ripetuta negli anni a guardar meglio." La Dolce Vita non è un film di denuncia in senso lato, ma ironizza spesso e volentieri su uno stile di vita, condannando nel finale il suo protagonista su quella spiaggia col pesce mostro. In "Otto e Mezzo" c'è quel famoso capitoletto sulla Saraghina e la Chiesa che sembra proprio una critica neanche tanto velata sull'oppressione che esercitava sul giovane Fellini. In "Amarcord" non mancano sequenze di un certo impatto, sempre riguardanti l'oppressione: la scena dell'olio di ricino somministrato da alcuni fascisti al padre di Titta, che ritorna a casa umiliato e nudo. E facendo attenzione si scorge nella società ritratta dal regista una povertà culturale in cui c'è di tutto: la stessa famiglia come scrive Tullio Kezich "tribale", la repressione sessuale, la scuola vista come una prigione. Quindi attenzione a non sottovalutare la ribellione di Fellini all'oppressione esercitata in questi tre casi da società, chiesa e politica. Non poco per uno che si dichiarava apolitico.

Tornando a parlare del film, va sottolineata anche la freschezza che continua a mantenere dopo quasi quarant'anni. Ha ispirato tantissimo del cinema nostalgico del futuro rimanendo tuttavia insuperato e insuperabile, forse proprio per questa sua caratteristica tipicamente fellininana di essere un mondo contenuto all'interno di una fantasia, e che non fa nulla per nasconderlo.

Nel calderone poi si trova di tutto: prostitute ninfomani, ragazzotti scemi e altri ingenui, la donna procace e fintamente sofisticata che incanta il paese (interpretata da Magali Noel dopo il rifiuto della Milo), i maestri continuamente presi per il culo o al contrario che terrorizzano i loro studenti con tirate d'orecchie e botte, lo zio matto (Ciccio Ingrassia breve e indimenticabile) e quello mangiapane a tradimento, i fascisti e i comunisti che si ribellano. C'è proprio tutto, lo vediamo come un disegno di uno schizzo appena abbozzato, ma che ci può bastare perché non è nostra intenzione poi andare a fondo. Nino Rota poi contribuisce a rendere il tutto immortale con quell'apertura sognante che è divenuta iconica in tutto il mondo: senti Rota e immagini Fellini, "Otto e Mezzo" e "Amarcord"ancor prima de " Il Padrino", purtroppo o per fortuna è così.

Sempre Kezich ha parlato di romanzo di formazione... altra definizione azzeccata. Ma non è solo il passaggio all'età adulta di Titta Benzi personaggio, che parte ragazzino scapestrato nella festa della "Fogarazza" per arrivare adulto al matrimonio della Gradisca in un anno di normali tribolazioni. Certo, lui diventa adulto per forza di cose e gli scherzi finiscono con la struggente morte della madre (una Pupella Maggio straordinaria anche se per forza di cose doppiata). Come nei "Vitelloni" ad esempio, dove Moraldo scappa via (ancora il distacco inevitabile), un film di cui Fellini ha spesso sognato un sequel mai realizzato dal nome Moraldo in Città. Forse "Amarcord" altro non è che il remake de"I vitelloni" visto attraverso un'altra prospettiva, quella ancora più matura stilisticamente di Fellini. La verità è che anche noi spettatori alla fine dobbiamo lasciare il paesino che per due ore abbiamo imparato ad amare in quanto c'è epoca per tutto: anche gli scherzi finiscono, anche al passato non si deve rimanere ancorati. Se ne va la Gradisca piena di lacrime e ce ne andiamo pure noi, ma sappiamo che tornando indietro, facendo un bell'Amarcord, ritroveremo tutto esattamente come era rimasto.
Qui sta la forza del cinema, imprime per sempre un momento nell'immaginario collettivo e lo si può rivedere quante volte vuoi. Fellini c'è riuscito con "Amarcord" più che mai a farci innamorare di una provincia forse mai esistita, ma che dal momento che lui l'ha ritratta è diventata vera come poche altre.

Per concludere: pur non essendo effettivamente l'ultimo capolavoro del buon Federico, questo è stato l'ultimo suo film a prendere un Oscar, come miglior film straniero. Si potrebbe star qui a pensare il perché un ritratto privato provinciale abbia catturato così tanti spettatori nel mondo, i motivi si sono spiegati sopra: quella di "Amarcord "è la provincia dell'anima, si trova all'interno solo di una nostra geografia, solo nostra. Fellini ha parlato alla nostra anima e per fortuna lo abbiamo ascoltato.
Chi non c'è riuscito o non l'ha voluto capire non sa cosa si è perso. Grazie Federico!

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Recensione a cura di elio91 - aggiornata al 12/12/2011 17.51.00

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