diario di un ladro regia di Robert Bresson Francia 1959
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diario di un ladro (1959)

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locandina del film DIARIO DI UN LADRO

Titolo Originale: PICKPOCKET

RegiaRobert Bresson

InterpretiMartin LaSalle, Marika Green, Jean Pélégri, Dolly Scal, Pierre Leymarie, Pierre Étaix

Durata: h 1.15
NazionalitàFrancia 1959
Generedrammatico
Al cinema nel Novembre 1959

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Trama del film Diario di un ladro

Sorpreso in un tentativo di scippo, dopo una lunga "carriera" di furtarelli vissuti come trasgressione, Michel finisce in carcere. Quando esce diventa ladro professionista. Un nuovo arresto e la relazione con una ragazza-madre saranno veicolo di una ritrovata pace con se stesso. Al centro della parabola dostoevskiana, asciutta e anti-narrativa, un personaggio intrappolato tra gli opposti automatismi dell'integrazione sociale e della rivolta.

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Voto Visitatori:   8,40 / 10 (20 voti)8,40Grafico
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Voti e commenti su Diario di un ladro, 20 opinioni inserite

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  Pagina di 1  

stratoZ  @  11/10/2024 13:03:26
   9 / 10
ATTENZIONE POSSIBILI SPOILER

Ennesimo film enorme di Bresson, dopo la parentesi carceraria di "Un condannato a morte è fuggito" questa volta si dedica alla storia di un ladro, lo fa continuando a progredire stilisticamente, anche se progredire non è il termine esatto, questo film, se possibile, è ancora più asciutto, è anche un film figlio del contesto dei generi che si stavano vivendo, in Francia e negli Stati Uniti spopolavano il poliziesco, il caper movie, buona parte di quelle opere vivevano di suspense - a dire la verità, spesso con risultati anche straordinari, bisogna ammetterlo - di dinamicità, di pathos, qui invece Bresson realizza se possibile il caper movie più atipico possibile, mette le mani avanti già dai titoli di testa "questo non è un poliziesco" sebbene il soggetto sia inerente al genere, l'autore svuota totalmente l'opera di tensione, l'asciuga il più possibile, elimina ogni tipo di premessa sulla motivazione che possa portare il protagonista a delinquere, elimina ogni tentativo di spettacolarizzazione, ci narra la storia di Michel nuda e cruda, un uomo che ruba senza che si sappia una vera motivazione, non è particolarmente disperato dall'essere costretto a rubare, non è affetto da cleptomania ne ha particolari tare che lo portano a delinquere.

Ll'opera inizia con Michel coinvolto a livello amatoriale nel borseggio, poi dopo il primo arresto inizierà ad ingranare ancora di più con i furti, collaborando con vari complici, anche grazie a degli insegnamenti esterni progredirà nella sua carriera da borseggiatore, interessante come Bresson ci mostra questa progressione, col dettaglio della mano di Michel che diventa il leitmotiv del film, fin dalle prime sequenze, mostrando pian piano sempre metodi più sofisticati per sottrarre il portafoglio o il denaro dal malcapitato, arrivando alla sequenza del pre finale in cui questa mano viene definitivamente fermata dalle manette dell'ispettore, anche in questo caso con una spettacolarizzazione ridotta al minimo, ma è la stessa suspense che viene a mancare, Bresson sembra fare in modo che lo spettatore non abbia la minima paura che Michel venga sgamato, anzi lo fa accadere nel bel mezzo del film e se la cava con un po' di vergogna sociale e qualche giorno a casa, è un film in cui buona parte degli eventi cardine accade fuori campo, oggi diremmo in background, come le stesse indagini dell'ispettore che da un momento all'altro del film dice a Michel che lo sta tenendo d'occhio da tempo, senza una vera consapevolezza ne del protagonista ne dello spettatore, risalta subito la differenza dalle indagini spettacolarizzate del cinema in cui spesso gli ispettori di polizia si perdono in labirintiche interpretazioni, così come accade per la morte della madre di Michel, non del tutto mostrata, vedremo solo Michel al capezzale con lei ancora cosciente e un funerale in cui non viene neanche inquadrata la bara, vi è solo il prete fuori campo che recita le esequie e Michel visto da lontano in ginocchio.

La discesa nella criminalità di Michel è un atto che lo porta all'isolamento, all'interno della sua squallida stanzina, elemento ricorrente già nelle precedenti - e future - opere del regista, ma se Fontaine nel precedente film all'interno della sua cella era costretto fisicamente, qui vi è più un isolamento psicologico, dovuto ai problemi portati dal mestiere di Michel, i rapporti si troncano, la madre viene a mancare, l'amata Jeanne viene allontanata, i complici cercano di condividere il meno possibile informazioni su loro stessi, ne deriva una terribile freddezza nei rapporti dal quale il protagonista non riesce a divincolarsi, nonostante la ricerca di una redenzione, tramite la poco convenzionale via della criminalità, che arriverà soltanto in un sentitissimo finale in quella che potrebbe essere la sequenza più poetica del film, insperata luce in fondo al tunnel in un film che è stato buio come la pece per praticamente tutta la sua durata.

Bresson in poco più di un'ora ci regala un altro grande esempio del suo cinema spoglio ed essenziale, eppure capacissimo di portare lo spettatore a numerose interpretazioni, proprio per i non troppi punti di riferimento che viene a dare, registicamente sublime nella sua frammentazione dell'immagine, i suoi primi piani neutri e i ripetuti dettagli, che assieme al sonoro ancora una volta fondamentale, creano un decoupage dell'inferno di Michel.

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