Recensione la stella che non c'e' regia di Gianni Amelio Italia, Francia, Svizzera 2006
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Recensione la stella che non c'e' (2006)

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locandina del film LA STELLA CHE NON C'E'

Immagine tratta dal film LA STELLA CHE NON C'E'

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La Cina non è più soltanto vicina: è già qui, tra noi. E quanto sia vicina lo dimostra la stessa attuale spedizione governativa e industriale italiana in quel paese, segno che un confronto socio-economico-culturale non è più procrastinabile.
Amelio, cinematograficamente avvezzo a viaggi e scoperte geografico-umane, ritaglia un personaggio italiano contemporaneo per inserirlo nel contesto del confronto tra la nostra cultura e quella dell'impero cinese. Con coraggio - bisogna riconoscerlo - Amelio affronta questo delicato discorso ponendolo sul piano dell'economia e del lavoro, che per forza di cose è necessariamente anche culturale.

Vincenzo Buonavolontà, il protagonista interpretato dal solido Castellitto, è un uomo della classe media operaia italiana, un manutentore dell'altoforno di un'acciaieria in dismissione. La crisi dell'acciaio, e più in generale della grande industria italiana, lo priva non solo del lavoro di sempre, ma anche dell'impianto a cui quel suo lavoro era dedicato. La dirigenza italiana trova conveniente vendere agli acquirenti cinesi l'altoforno di cui Vincenzo si occupava. E' una parte di sé che se ne va. Un altoforno di 30 anni da smantellare e trasportare dall'altra parte del mondo, un'esperienza lavorativa della medesima durata che finisce con quell'atto.
Per Vincenzo l'altoforno non è solo il cuore dell'acciaieria, ma il centro di tutta la sua esistenza, parte della sua anima. L'Italia, la vecchia Europa decadono, arrancano tra le maglie di un'economia in cambiamento, che ha allargato gli orizzonti, e dismettono il meglio delle loro creazioni a favore di nuovi antichissimi mondi/acquirenti in rapida disattenta espansione.

Vincenzo è un operaio di vecchio stampo, di quelli legati al proprio lavoro, al macchinario che hanno in gestione, da un attaccamento che va oltre le proprie mansioni, secondo una concezione del lavoro che univa per una vita l'uomo alla "sua" fabbrica. Per cui la cura dell'impianto, considerato quasi come materialmente - e, per estensione, affettivamente - proprio, nonché come unico e irripetibile, porta per l'operaio (in barba all'alienazione...) a trovare anche i rimedi agli eventuali difetti. Nessuno conosce l'impianto meglio dell'operaio che vi lavora, e il suo funzionamento - e la sua usura - va di pari passo con la vita di quell'uomo.
La dismissione in atto, la dislocazione e la frammentazione industriale hanno sgretolato anche questo concetto di sacralità del lavoro. Vincenzo, appresa con rassegnazione la destinazione del "suo" altoforno, bypassando la dirigenza della fabbrica, tenta di assolvere all'ultimo suo dovere di manutentore, quello di trovare il difetto dell'altoforno e di porvi rimedio. Il suo invito alla cura dell'impianto pare non interessare molto ai cinesi. La loro economia viaggia troppo velocemente per potersi soffermare su questi dettagli tecnico-"sentimentali" trascurabili.

E' il primo vero confronto tra culture che Amelio tratta già nell'incipit: un contrasto drammatico ed evidente tra due mondi e due concezioni diametralmente opposti che si scambiano i ruoli senza intendersi, senza trasmettersi le conquiste umane e di civiltà arrivate con lo sviluppo e il progresso (occidentale) ora in affanno.
Vincenzo parte per la Cina alla ricerca del suo altoforno a cui applicare la nuova centralina da lui stesso realizzata al fine di risolvere il difetto rilevato. E' la sua missione finale, la ricerca della propria anima, del senso stesso di tutta la sua esistenza di operaio legata alla macchina.
Amelio imposta questo road movie - fatto di treni, autobus, battelli, ascensori, scale, camion, mezzi di fortuna - come un viaggio nel "Cuore di tenebra" del grande impero d'Oriente. Ma qui non c'è un agente della compagnia coloniale a osservare e scoprire - con fascino e orrore - il mondo selvaggio e crudele del paese lontano colonizzato dal proprio, ma un uomo semplice del vecchio mondo colonialista alla scoperta dell'immenso paese che, in un mare di contraddizioni, ne sta soppiantando il ruolo di conquistatore.

Nell'ignoto, alla fine del viaggio, non si cela la figura inquietante e ambiguamente affascinante di un Kurtz sfuggito alle regole del proprio mondo, risvolto oscuro dell'anima dell'uomo occidentale, ma il senso ultimo dell'esistenza di quell'uomo, l'attaccamento viscerale al suo ruolo, ai suoi valori (e alla loro sopravvivenza). Come Conrad semmai si pone Amelio, mostrando un mondo sconosciuto che si apre a noi, come a Vincenzo, nel momento stesso del viaggio.
La Cina che appare agli occhi di Vincenzo è un paese che cambia repentinamente, dalla sera alla mattina successiva; la scavatrice non può nemmeno più permettersi di piangere, neanche di notte, mentre centinaia di gru si arrampicano per costruire grattacieli sempre più alti; fiumi, città, villaggi, paesaggi millenari scompaiono in brevissimo tempo sotto la spinta di un fagocitante "progresso", come dice Vincenzo navigando sul Fiume Azzurro destinato a diventare un immenso lago artificiale con la costruzione della più grande diga del mondo. Ma è più che altro uno sviluppo senza progresso, quello che persegue la Cina, per usare le parole di Pasolini.

A Vincenzo si sono sostituiti milioni di operai senza diritti e senza alcun legame (affettivo) con la macchina, formiche che producono in serie e in fretta ogni cosa, in grado di risolvere ogni problema, anche quello più difficile, secondo il parere di Vincenzo.
Ciò che per lui era frutto del suo personale ingegno e impegno nel connubio con l'impianto, di fronte alla veloce, indifferente produttività cinese è solo un pezzo inutile in quanto già realizzato in molteplice copia (di quale efficacia non è dato saperlo...). La missione di Vincenzo è a questo punto terminata, come un padre che ha donato gli organi di suo figlio morto ad un altro e finisce per conoscerne il destinatario: appresa la sorte della sua creatura, la sua storia di manutentore può dirsi davvero conclusa.
Non gli resta che il deserto, il nulla, e la piena, dolorosa consapevolezza che quella parte fondamentale della sua vita non gli appartiene ormai più. Non può più neanche aggiustare il giocattolo di plastica regalato al bambino, perché quei meccanismi sono di un'epoca da cui è stato tagliato definitivamente fuori.

Come nel più classico dei viaggi (letterari), il protagonista è affiancato da una guida, tanto fisica e "secolare" quanto spirituale. E nel film di Amelio essa assume il volto dolce di una ragazza cinese, interprete e studiosa di lingue "minori" (l'italiano), figlia e simbolo rivelatore del mondo arcaico e povero, sofferente della campagna schiacciata dalla burocrazia del sistema e dal rapidissimo e inarrestabile sviluppo del quale, però, non si colgono tangibili benefici sulla popolazione.
Anche in questa cineincursione cinese Amelio attribuisce un ruolo di speranza e di fiducia per il futuro ai bambini. Il figlio non dichiarato di Liu hua che gioca con la centralina dell'altoforno realizzata da Vincenzo ne ha afferrato i segreti, ne ha catturato l'anima: forse un giorno questo bimbo potrà dare il suo contributo alla causa del progresso umano dei cinesi, alla loro completa emancipazione sociale e civile.

La stella che non c'è: nella bandiera della Cina ci sono 5 stelle; Liu Hua ne nomina 4, che simboleggiano l'onestà, la pazienza, la solidarietà, la giustizia. Ne manca una, la più grande forse...*
Nonostante l'importanza data a tutti questi elementi e l'intelligenza con la quale vengono trattati, il film non ha la forza di imporsi come opera definitiva sulla questione, per quella tendenza a ripiegare verso l'intimismo del finale e alla scelta registica di non soffermarsi maggiormente sull'impatto emotivo, estetico e culturale che l'osservazione del paesaggio geografico e umano della Cina produrrebbe a un occidentale che l'attraversa.

* La stella più grande nella bandiera cinese simboleggia il Partito Comunista.

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Recensione a cura di gerardo - aggiornata al 18/09/2006

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