play time regia di Jacques Tati Francia 1967
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play time (1967)

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locandina del film PLAY TIME

Titolo Originale: PLAYTIME

RegiaJacques Tati

InterpretiJacqueline Lecomte, Rita Maiden, Barbara Dennek, Jacques Tati

Durata: h 1.48
NazionalitàFrancia 1967
Generecommedia
Al cinema nel Dicembre 1967

•  Altri film di Jacques Tati

Trama del film Play time

Mentre vaga per i quartieri più avveniristici di Parigi nell'inutile tentativo di rintracciare un impiegato, l'allampanato e compassato monsieur Hulot si smarrisce in una giungla di architetture moderne e gadget tecnologici, rimanendo ""impigliato"" in un gruppo di turisti statunitensi...

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Voto Visitatori:   8,29 / 10 (26 voti)8,29Grafico
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Voti e commenti su Play time, 26 opinioni inserite

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  Pagina di 1  

h.chinaski  @  21/05/2010 21:41:36
   9 / 10
la definizione di caos controllato!!!
Sto film mi ha fatto innamorare di j.tati. Ho sempre trovato la fugura di monsieux haulot non troppo esaltante...ma misà che non avevo capito un *****! solo in tatville le porte a vetro riflettono l'arte....

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2 risposte al commento
Ultima risposta 06/12/2010 19.37.12
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bulldog  @  16/07/2009 10:57:51
   6½ / 10
Buono ma sopravvalutato.

1 risposta al commento
Ultima risposta 04/09/2009 12.25.58
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andreacinico  @  20/04/2009 18:33:47
   9½ / 10
Allucinante!
Uno dei film più complessi che abbia mai visto. Diviso in due parti apparentemente distinte, mantiene comunque quell'elemento comune come l'impostazione prospettica dell'inquadratura in campo lungo ed ampia profondità di campo. Un esempio per tutti è il ripetersi dell'inquadratura dall'alto della struttura alveolare formata dagli uffici asettici della prima parte che trovano un corrispettivo nell'inquadratura dei tavolini del ristorante della seconda parte.
Il film parte in maniera surreale (molte volte non si capisce se i personaggi si muovono all'interno o all'esterno delle grandi strutture composte da ampie vetrate) poi, già nella seconda parte, il ritmo si fa sempre più frenetico e caotico in maniera parossistica fino al romantico epilogo.
Film sperimentale (e molto all'avanguardia per l'epoca in cui è stato girato) che ha, a mio avviso, punti in comune con i romanzi distopici dei primi anni del 1900 in cui si temeva un futuro pervaso da un'eccessiva omologazione (gli appartamenti con ampie vetrate totalmente visibili dalla strada mi hanno fatto pensare alle costruzioni con pareti trasparenti rappresentate nel romanzo "Noi" di Zamjatin in cui ogni azione è sotto gli occhi ed il controllo di tutti e quindi totale mancanza di privacy).
La peculiarità del film in esame consiste nella complessità di tutto ciò che rientra nel quadro in cui si sovrappongono elementi visivi e situazioni comiche a ripetizione, dettagli a volte difficilmente individuabili se non con un occhio molto attento.
Tra le tante metafore del film, una può essere il senso di una società che si arrabatta freneticamente ma alla fine gira in tondo senza concludere niente; proprio come la giostra nel finale rappresentata dalle autovetture che girano nella rotonda che, di volta in volta, qualcuno (come l'uomo che inserisce la monetina nel parcometro) fa ripartire, dando il momento di svago più alto ai turisti (come si evince anche dal titolo del lungometraggio).
Interessante anche l'idea che tutto si svolge in una città che vuole rappresentare Parigi ma in realtà non lo è (infatti il set è stato ricostruito per intero alla periferia della stessa). La vera Parigi è solo un riflesso lontano come appare dalle vetrate delle porte occasionalmente aperte (si vedono la Torre Eiffel, l'Arco di Trionfo e ... in realtà su un'ultima vetrata mi è sembrato di vedere un mausoleo in stile indiano tipo il Taj Mahal che mi ha strappato un sorriso).
Nonostante tutto i turisti si accontentano di fotografare una fioraia che rappresenta l'unico elemento verace che si stacca da uno sfondo geometrico, freddo e alienante tipico di una società standardizzata.
Ci troviamo, quindi, di fronte ad un'opera d'arte che fa dell'immagine il suo punto di forza (le poche parole dette da Monsieur Hulot sono incomprensibili) e che ha come unico difettuccio la prolissità di alcune sequenze a causa, penso, dell'eccessivo esercizio di stile.

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Ultima risposta 21/04/2009 12.11.35
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Invia una mail all'autore del commento wega  @  16/04/2009 21:56:17
   10 / 10
Qualcuno troverà improbabile il fatto che lo stavo per rivedere per la terza volta consecutiva, ma che film ragazzi. E' stato utile in questi giorni inquadrarmi meglio in un autore e la sua "ideologia del piano sequenza" come Mizoguchi, per capire meglio questa straordinaria - la prima che vedo - opera di Tati. Anche se qui si potrebbe parlare di "ideologia del piano fisso", il meccanismo che dovrebbe innescarsi nello spettatore è lo stesso. La permanenza sui campi lunghi (bisognerà aspettare 10 e 110 minuti per gli unici due piani americani dell' intero film) la totale assenza di primi piani e la mdp sempre un po' più alta rispetto all' altezza uomo, è importante per stabilire l' assoluta mancanza di una focalizzazione su un personaggio in particolare; anzi, qui le azioni più importanti si svolgono solo in secondo o terzo piano."Play Time" è un Capolavoro di squisita complessità, un' opera d' arte da guardare da un' altra prospettiva (i ritratti che "ci" scrutano, lo specchietto retrovisore, la Torre Eiffel riflessa sulla porta di vetro), in anticipo sui tempi, è un' assurda parabola - futurista allora, contemporanea oggi - sull' essere umano privo di identità, e che sembra non essere in grado di adattarsi all' inflessibilità del suo territorio. E geniale è perché tutto ciò parte proprio dal linguaggio: il ritmo, statico prima e serrato poi ma sempre artificioso, la focalizzazione zero appunto e il rigore geometrico dell' intero complesso scenografico, da capogiro, di cui sfido a darne una connotazione certa alle varie parti durante la visione. Uscito un anno prima di "2001: Odissea nello Spazio", un altro fondamentale film muto nell' era del sonoro.

2 risposte al commento
Ultima risposta 17/04/2009 23.36.15
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