Recensione fuoco fatuo regia di Louis Malle Francia, Italia 1963
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Recensione fuoco fatuo (1963)

Voto Visitatori:   7,82 / 10 (17 voti)7,82Grafico
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locandina del film FUOCO FATUO

Immagine tratta dal film FUOCO FATUO

Immagine tratta dal film FUOCO FATUO

Immagine tratta dal film FUOCO FATUO

Immagine tratta dal film FUOCO FATUO

Immagine tratta dal film FUOCO FATUO
 

"Domani mi uccido!"

I latini lo chiamavano il "taedium vitae" ossia il disgusto della vita, uno stato d'animo che all'epoca, venti secoli fa, così come oggi, è stato ed è tuttora prevalentemente ostentato dalle persone ricche e colte: "per quanto tempo ancora dovrò fare le stesse cose? Dormire, svegliarmi, mangiare, sentirò freddo, sentirò caldo". Tutti gli elementi della realtà si susseguono in un ciclo continuo, tutto passa e tutto ritorna, vivere non rappresenta qualcosa di faticoso od atroce ma di assolutamente inutile.

Louis Malle trasferisce al trentenne di estrazione borghese Alain Leroy, assoluto protagonista del film, quello che ha vissuto sulla propria pelle per un lungo periodo della sua vita; locali notturni, esperienze occasionali, fiumi di alcool hanno accompagnato il regista fino ad una provvidenziale presa di coscienza, non si può essere adolescenti in eterno. L'occasione per esprimere quello che cominciava a diventare un disagio interiore importante e pericoloso Malle la trova con la lettura dell'omonimo romanzo di Pierre Drieu La Rochelle, (lo scrittore realizza l'opera per il rimorso di non aver saputo capire in tempo che il suo amico Jacques Rigaut, il protagonista del libro, avrebbe dato seguito ai suoi propositi di suicidio uccidendosi veramente) ne rimane così affascinato che decide di farne l'adattamento: l'opera letteraria diventa un film, fondamentalmente fedele, con la variante che a stravolgere la vita del protagonista anziché la droga è l'alcool.

Il film cerca di rappresentare, tra l'altro riuscendoci perfettamente, il malessere di Alain: un senso di inutilità incontrollabile, una sorta di follia post-depressione che lo fa sprofondare nell'alcool prima e nei propositi di suicidio poi.

Al regista sono sufficienti poche inquadrature all'inizio del film per far comprendere allo spettatore le intenzioni di Alain: l'interno della sua stanza, una data scritta su una lavagnetta ed una pistola avvolta in un panno accuratamente nascosta in un cassetto. La bellezza del film sta nel mostrare in maniera diretta ed altrettanto semplice il naufragio dell'uomo negli ultimi due giorni di vita. Nel breve arco di quarantotto ore Malle cerca di descrivere la complessa articolazione del fenomeno, il suicidio non è soltanto un'azione meccanica di pochi secondi come può esserlo un colpo di pistola, porre fine deliberatamente alla propria esistenza è un comportamento denso di implicazioni sociologiche e culturali che interagiscono con le motivazioni individuali e che di conseguenza impongono di valutare l'intenzionalità dell'atto, acquista quindi particolare importanza a quali condizionamenti socioculturali viene sottoposto il soggetto. Alain è sopraffatto da quel senso di inutilità della vita molto frequente nella generazione di giovani di estrazione borghese; dove non si vedono spiragli di realizzazione l'unica, drastica, soluzione è l'autodistruzione destinata a culminare nell'atto finale.

Fondamentale per la riuscita della pellicola è stata la scelta dell'attore protagonista da parte del regista; Maurice Ronet con la sua eleganza ed un naturale disincanto incarna perfettamente la complessa personalità di Alain, tutto è accentrato su di lui, i suoi amici gli gravitano intorno come delle ombre incapaci di aiutarlo, la loro quotidianità è lontana mille mondi dalla sua, l'impenetrabilità dell'uomo non consente tentativi di dissuasione verso i suoi macabri propositi, lo stato ininterrotto di ebbrezza sofferto in passato ha abbrutito il suo animo, i vizi acquisiti sotto l'azione del vino conservano il loro vigore e fanno perdurare una penosa condizione di disgusto nei confronti dell'esistenza.

Dove risiede la bellezza di questo film? Sin dalle prime immagini lo spettatore viene rapito dalla presenza di Alain Leroy con il quale entra subito in simbiosi, non è necessaria nessuna entrata trionfante del protagonista, al regista sembra non interessare il colpo ad effetto, la partecipazione con l'angoscia esistenziale di Alain è immediata, subito viviamo anche noi tanto quanto ci viene offerto, subito avvertiamo lo stesso penoso stato d'animo.

Che cosa spinge un trentenne di estrazione borghese, dall'aspetto piacevole e possibilità infinite per riuscire in tutto, a correre incontro alla morte per la noia di vivere?
Alain è un alcolizzato che segue una cura disintossicante in una clinica, su di lui grava anche il peso di una profonda depressione ma agli occhi dei dottori è in via di guarigione, raggiungere una totale situazione di benessere è soltanto una questione di volontà, per i medici basta volerlo ed il male oscuro viene tranquillamente lasciato alle spalle, purtroppo Alain vede le cose diversamente, la volontà c'è ma è finalizzata ad un altro scopo, non segna un punto di partenza ma di arrivo, nessuno dei vecchi amici chiamati in causa riesce a restituirgli la pace interiore, nessuna donna, nessun sentimento, nessun impulso esterno è in grado di convincerlo che la fine debba sopraggiungere nel momento che la natura ha decretato.
Alain rispetta quella legge eterna che ha stabilito un solo ingresso alla vita ma numerose uscite, perché non arrogarsi il diritto di scegliere quale?

Pur ritrovandosi in pieno periodo "Nouvelle Vague", Malle cerca di restarne comunque ai margini, fondamentalmente disinteressata alle novità, la sua è una regia semplice, diretta, di stampo classico con una maniacale ricerca delle inquadrature, primi piani che invitano alla riflessione, un cinema d'autore degno dei migliori Truffaut, Godard e Chabrol.

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Recensione a cura di Marco Iafrate - aggiornata al 17/11/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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