Sfuggita all'inseguimento di due killer, la bella Grace arriva nella sperduta cittadina di Dogville. Grazie all'aiuto di Tom, portavoce della comunità, Grace riesce ad ottenere protezione a patto che sia disposta a lavorare per la comunità. Ma quando si viene a sapere che la donna è una grossa ricercata, gli abitanti di Dogville avanzano nei confronti di Grace sempre maggiori pretese. Ma Grace nasconde un segreto che farà pentire tutta Dogville di aver mostrato i denti contro di lei...
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Anche a detta di Tinto Brass, il manifesto “Dogma” di Trier ha senso soprattutto sul piano economico e finanziario, per promuovere la produzione di film a basso costo. A detta invece del Mereghetti, “Dogville” sarebbe una sorta di rinnegamento delle regole di tale manifesto, poiché la parsimonia nella scenografia e nel parco luci, nonché la macchina da presa sempre in mano e traballante, non è più funzionale al proclama d’un cinema realista. Eppure c’è realismo e realismo, quello formale e quello contenutistico. E in “Dogville” il secondo raggiunge un vertice inedito nell’opera del regista grazie proprio all’adozione d’una modalità di rappresentazione quanto mai astratta e antinaturalistica. Per quasi tutti i 178 minuti del film ci viene fatto credere d’assistere all’ennesima apologia dell’eroina martire e vittima sacrificale, ma gli ultimi 10 minuti inducono uno scossone tremendo, imprevisto e potentemente salutare. La gratuità apparente d’una scenografia solo abbozzata da linee bianche e dal minimo sindacale di oggetti di scena diventa improvvisamente sensata già durante la sequenza in cui la protagonista viene violentata letteralmente sotto gli occhi di tutti, sotto il silenzioso assenso dell’intera micro-popolazione. Un campo totale ci mostra dal di dietro il rimbalzo dello scroto dello stupratore nell’indifferenza di ogni singolo abitante. È una chiamata di correità universale: davvero esiste anche solo uno di noi che non sia responsabile del male che infuria per ogni angolo del nostro mondo? Tuttavia fin lì i carnefici hanno vita facile a causa della masochistica disponibilità del personaggio recitato dalla Kidman: il suo patologico concetto di purezza rende possibile e attuabile ogni forma di sadismo ai suoi danni, cioè diventa accondiscendenza, vulnerabilità disponibile a qualsiasi sopruso. Ma il colpo d’ala finale del film consiste proprio in questa presa di coscienza: una Grazia (“Grace”) senza Giustizia è immorale, perversa e maligna tanto quanto il reciproco. Lei se ne rende conto in un attimo, nel lampo d’un cambio di luce. Intuizione degna d’un Monet: un solo istante di diversa illuminazione e cambia l''intera prospettiva esistenziale. La violenza indotta dall’insano rifiuto della legittima difesa provoca effetti devastanti identici allo sterminio nudo e crudo. Un *****tto alla bocca dello stomaco per farci riflettere sulla distanza siderale che ancora ci separa dalla quadratura del cerchio fra i due poli della moralità. Tesi ineccepibile, ma 178 minuti per enunciarla sono insostenibilmente eccessivi.