Recensione i racconti della luna pallida d'agosto regia di Kenji Mizoguchi Giappone 1953
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Recensione i racconti della luna pallida d'agosto (1953)

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locandina del film I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D'AGOSTO

Immagine tratta dal film I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D'AGOSTO

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Immagine tratta dal film I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D'AGOSTO

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Immagine tratta dal film I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D'AGOSTO
 

Se si pensa a quante pellicole del maestro del cinema Kenji Mizoguchi, a quali meraviglie destinate all'immortalità, a quanti capolavori, per dura legge degli eventi, si è dovuto per sempre rinunciare, non si può che provare nell'approccio alla sua opera, assieme alla debita ammirazione, un certo senso di rammarico.
Già il terremoto che colpì la capitale giapponese nel 1923 disperse gran parte dei suoi primi lavori; e ad assumere il ruolo di distruttrice definitiva fu ancora una volta la guerra - la Tokio bombardata. Nondimeno, il tempo e il clima hanno fatto la loro parte, riducendo ulteriormente la sterminata filmografia del maestro.
Per fortuna però - quasi sto anticipando involontariamente il miracolo dei vasi, che vedremo più avanti - qualche superstite è rimasto, e nel dopoguerra Mizoguchi ha sfornato (casualmente il termine è più che appropriato) una serie di capolavori di "intatta" bellezza e spiritualità.
Intatta, ma tra le virgolette; poiché lo stesso "I racconti della luna pallida d'agosto" arriva in verità ai nostri giorni mutilato di circa 47 minuti, perduti irreparabilmente anch'essi, ma ciononostante reduce di tutto il proprio fascino e della propria grazia infinita.

Come il chiarore della discreta luna (già il titolo è di per sé emblematico: si è nel limpido agosto, ma la luna è pallida) Mizoguchi rischiara le campagne devastate dalla guerra, inargenta l'acque desolate e spettrali del lago Biwa, alle cui rive opposte, finemente raccontati e musicati, destini differenti s'intrecciano, spiriti convivono con personaggi reali, vi si trovano assorti simboli quotidiani e al contempo magici come i già citati vasi.

Siamo in Giappone, nella regione rurale Omi, alla fine del secolo XVI.
Due coppie di giovani sposi (Genjuro e Miyagi; Tobei e Ohama) vivono in serena umiltà, obbedienti al lavoro e alla cura delle proprie case. Ma l'appressarsi della guerra civile ridesta nei mariti le rispettive brame: il denaro, il commercio, l'arricchirsi per Genjuro; e la gloria per Tobei, il desiderio di diventare a tutti i costi un samurai.
Inutili saranno i consigli e le ammonizioni delle mogli (ecco già accennato il ruolo delle donne, che nell'opera di Mizoguchi sono sempre le figure più pregnanti, portatrici di coscienza e dispensatrici di buoni ideali); la guerra, regina di miserie e distruzione, offre agli occhi ciechi degli uomini l'illusione ineludibile di nuove opportunità.

E la guerra arriva, tremenda nella notte. I contadini fuggo nei boschi. Dentro il grande forno, stavano cocendo i vasi, tutta la loro fortuna.
Ma ecco avvenire il miracolo: risparmiate dal saccheggio - il forno nel frattempo s'è spento - le ceramiche sono intatte, e tutte cotte al punto giusto. Anzi sono perfette, pronte ad essere vendute, bellissime. Un dono della buona sorte; o forse un segnale divino.
In ogni caso gli uomini non sapranno avvalersene. Attraverseranno il lago, languido confine spirituale, le cui acque nebbiose, indistinte e stregate, trasporteranno la barca d'un primo fantasma, d'un sanguinante e terribile avvertimento di sventura. Miyagi verrà lasciata alla riva col figliolo, nel mezzo degli orrori della guerra.
Mentre sull'altra sponda, nel fragore d'un luminoso e affollato mercato, Genjuro incontra un'avvenente ed enigmatica principessa che, interessata apparentemente alla bellezza dei suoi vasi, lo porterà a palazzo, lo farà innamorare, ammantandolo nella dissolutezza d'un amore arcano, d'una ricchezza vacua, d'una fiaba oscura e senza via di uscita, tra stanze occluse, meandri fatati, giardini silenziosi; mentre Miyagi, sua moglie, sola col proprio bimbo sulle spalle, sulla sponda opposta del lago Biwa, muore colpita da un soldato.
Anche Tobei sembrerà realizzare il suo sogno: con l'inganno, sarà insignito del titolo di samurai, omaggiato, acclamato dagli altri guerrieri; mentre Ohama, sua moglie, dopo essere stata stuprata da alcuni balordi, vive adesso quale prostituta in una casa di piacere.
Il palazzo non è mai esistito. Wakasa, la bella principessa, si è rivelata essere un'ombra, uno spirito maligno. E la nuova città, sorta al di là del lago Biwa, la rovina in polvere delle due famiglie.
Ma dunque a quale prezzo, stregati, gli uomini hanno seguito le proprie ambizioni?
La bellezza d'un kimono, invero, non è nella ricchezza dei suoi tessuti; ma nel gesto amoroso di chi lo dona. E l'onore, qualora leale, non nella lucentezza della propria armatura. Essi sono conservati nell'amore, nel vivere dignitoso, nella genuinità, nella pace, nell'affetto incondizionato verso i propri famigliari.

Truce e al tempo stesso soave, fiabesco e assieme concretissimo, il capolavoro di Mizoguchi ci narra questo dispiegarsi delicato di pitture, queste storie (tratte da un libro di racconti di Akinaru Ueda) con una leggerezza di tocco straordinaria, dipingendole in ambienti carichi di forza evocativa, calandole in notti dalla riservatezza e la grazia quasi Leopardiane. Avvalendosi, tra le altre cose, di musiche lievi, incantatorie, occulte, bellissime, indefinibili. Amalgamando realtà e suggestione onirica in un unico racconto, uomini in carne d'ossa con mere entità spirituali, elegia e racconto fantastico.
E come in tutte le buone fiabe, la morale è limpida e facilmente desumibile. Ma anche soggettivamente ampliabile e, seppure pregna di rimandi alla tradizione popolare giapponese, leggibile a tutti i livelli e a tutte le latitudini.
La donna, protettrice del focolare, e fulcro dell'universo Mizoguchiano, non è solo la moglie premurosa o la madre attenta; il suo sacrificio è altresì totale, accettante d'assorbire in sé tutti i peccati, tutti gli sbagli commessi (l'avidità ai beni terreni, l'abbandono dei mariti) fino ad assumere il ruolo di redentrice e rettificatrice degli uomini. E oltrepassa i confini della vita, arriva finanche dall'aldilà, più udibile ancora e più comprensibile, in questa pagana "corrispondenza d'amorosi sensi" che ci fa pensare ai "Sepolcri" Foscoliani.
Di contro però, ella può adottare le sembianze maligne d'un ombra dal volto cereo, dal passo impercettibile (la principessa Wakasa), ammaliando l'uomo e trascinandolo dentro le prigioni di un'illusone fatua, asservendolo a quella non-vita sognata, sino a causare la morte e la rovina dei suoi famigliari, in un epilogo tragico e senza nessuna possibilità di riscatto.

Ma non è questo il vero epilogo di "Ugetsu Monogatari"; e nella dolcissima poesia delle sequenze finali (quando Genjuro, Tobei e Ohama fanno ritorno al villaggio) riappare la delicatezza delle donne, e l'umiltà, e l'abnegazione al lavoro, e la casa, e la campagna, e gli spiriti buoni, e la moglie di Genjuro, Miyagi, che con la sua voce pacata e trascendente, riaccompagna il marito verso la cara serenità perduta.

"Non sono morta mio amato...
sono qui vicino a te...
le tue illusioni si sono dissipate...
sei a casa adesso...
sei di nuovo te stesso...
altro lavoro ti sta attendendo...
...
Che forma meravigliosa quel vaso!
aiutarti è il mio piacere più grande...
sono impaziente di vederli finiti...
i ceppi sono accesi...
non verranno ancora le orde dei soldati...
lavora in pace ora ai tuoi vasi...
...
Sono successe tante spiacevoli cose...
e adesso che sei divenuto il mio marito ideale...
ahimé, non sono più in questo mondo...
a ciò, mio amato, bisogna rassegnarsi...
"

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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 27/10/2009

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