Recensione aspettando il mare regia di Bakhtiar Khudojnazarov Russia, Germania, Belgio, Francia 2012
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Recensione aspettando il mare (2012Film Novità

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Immagine tratta dal film ASPETTANDO IL MARE

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Esistono davvero i film da festival. E Marco Müller, neodirettore del festival del cinema di Roma nel 2012, ne sa qualcosa, se è vero che ha scelto, come film d'apertura della rassegna, una pellicola priva di richiamo commerciale, scelta in base al suo sedicente valore artistico, e che risulta a conti fatti artistoide. Un po' antipatica, anche, nella sua pretenziosità, coniugata a incapacità di trasmettere autentiche emozioni. "Aspettando il mare" è un film velleitario, intessuto di inquadrature e movimenti di macchina estetizzanti e "poetici", che aspira, nella sua deliberata lentezza, a veicolare profondi contenuti, in una cornice fitta di simboli abusati, di stilemi presi in prestito ad altri autori (Kusturica, soprattutto, ma anche Makhmalbaf), e di citazionismi smaccati ("Fitzcarraldo" di Herzog, con la sua celeberrima nave trainata su di una montagna).
"Aspettando il mare" è un film di produzione europea internazionale (Russia, Kazakistan, Francia, Germania, ecc.), diretto da un regista nato in Tagikistan, Khudojnazarov, noto al mondo per un film del 1999, "Luna papa", che riscosse all'epoca grande successo di critica. Confessiamo di non conoscere la carriera di Khudojnazarov, ma a onor del vero la visione di "Aspettando il mare" non ci lascia la sensazione che la lacuna da colmare sia grande.

Il film narra, con toni di commedia, la vicenda di Marat, capitano di una nave colata a picco durante una tempesta, che dopo alcuni anni torna al suo villaggio, un tempo baciato dal mare, che si trova ora circondato dal deserto. Il mare si è ritirato, quasi prosciugato a pozza di sale: al suo posto, si stende un'arida distesa di sabbia. In luogo del porto, un inutile aeroporto. Marat - spinto dal senso di colpa per non aver ascoltato un vaticinio, aver abbandonato la nave prima del naufragio, ed esser l'unico sopravvissuto alla tragedia in cui ha perso la vita anche la moglie - recupera il relitto, ormai spiaggiato, e si lancia nella folle impresa di ricondurlo al mare attraverso il deserto, trainandolo lentamente per mezzo di un argano. Intorno a lui, le vicende di alcuni personaggi, tra i quali il suocero e Tamara, la cognata innamorata di lui.
Tra un ballo scatenato in cui Marat sfoga il suo vitalismo di fronte agli allibiti compaesani (la follia salverà il mondo...), di scena surreale in scena surreale (la nave di volta in volta trainata da alcuni dromedari o da camion di passaggio), il film scorre, pianissimo, verso quel mare che un biblico terremoto farà infine "sgorgare" di nuovo dalla terra.

La leziosità di Khudojnazarov è evidente sin dall'incipit, quando si sospetta il peggio per un tono fiabesco che fa a pugni con il nitore eccessivo del digitale, per una fotografia cromaticamente troppo accesa. Una messa in scena che complessivamente stenta a convincere, nel suo posticcio "realismo magico".
Riscattano in parte la pellicola molte eleganti composizioni sceniche, a tratti assai suggestive; ma non si riesce mai a partecipare per davvero del continuo rimando alla poetica dell'attesa, esplicita sin dal titolo (non si comprende perché suggerire l'attesa, del mare, quando la vicenda racconta piuttosto la sua ricerca).
"Aspettando il mare" si colloca in una tradizione dell'assurdo che ha salde radici nell'Europa dell'est (si pensi a Ionesco, al Polanski degli anni '60, a registi dell'ex Jugoslavia come lo stesso Kusturica o Goran Paskaljevic). Aspira a farsi parabola universale sin dalla scelta di non ambientare la pellicola in nessun luogo preciso, per quanto l'allusione sia al dramma ecologico ed economico del prosciugamento del lago d'Aral, sito tra Uzbekistan e Kazakhstan, dovuto a scellerate forme di sfruttamento in epoca sovietica (la sua superficie d'acqua è attualmente ridotta di 2/3 rispetto a vent'anni fa).

Il film vuole essere allegoria di una civiltà umana che ha prosciugato le sue stesse risorse vitali, a causa della propria tracotanza; la figura di Marat assume, di converso, su di sé, la vocazione al riscatto attraverso il sacrificio e l'abnegazione: una scommessa, infine premiata, prima che la pellicola termini nientemeno che con una citazione ad effetto dall'Apocalisse: "Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano passati, e il mare non era più". Poco persuasi, in verità, della rivelazione giovannea appena manifestatasi sotto i nostri occhi sottoforma di una sconfinata distesa di mare (?), lasciamo la sala sbigottiti.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 14/11/2012 17.12.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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