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Tutti i post per la categoria: Cinema registi

o lo si ama o lo si odia

Pubblicato il 12/12/2012 08:36:15 da Pasionaria


Non può che suscitare reazioni viscerali contrastanti il cineasta che ha fatto della passione, soprattutto di quella per il cinema, il motore della sua vita.

Pedro Almodòvar è stato in gioventù un regista dallo spirito eclettico ed inquieto, capace di riflettere se stesso nei suoi film, in modo caotico, con scarsa disciplina, esprimendo una morale sua, affatto convenzionale. Crescendo, con lui è cresciuto anche il suo cinema e si è come raffinato, meglio affinato.

Lo stesso regista, negli anni ’90, ripeteva spesso di voler passare di moda e di voler diventare un classico.

Beh, indiscutibilmente sembra esserci riuscito, se si analizzano le sue creazioni dell’ultimo ventennio, a partire da quello che è stato considerato, non solo dalla critica, anche dal pubblico, l’apice della sua carriera, sto parlando del periodo produttivo di
Tutto su mia madre” e di “Parla con lei”. Entrambi le opere pluripremiate ai festival internazionali più autorevoli.

Chi si ricorda o chi ha seguito il giovane Pedro? Quel giovane scapestrato che, tra gli anni ’70 e ’80, ha fatto del gusto kitsch la propria peculiarità, l’elemento identificante, arricchendolo con lo humor gretto ma ricco d’immaginazione dell’underground madrileno? Questo, probabilmente, è l’Almodòvar meno popolare, più dileggiato per la gestualità irriverente, il sesso spudoratamente esibito, il rock, i colori eccentrici in un tutt’uno di pessimo gusto. Parlo del regista di “Pepi, Luci, Bom, e le altre ragazze del mucchio” o di “Labirinto di passioni” e “L'indiscreto fascino del peccato”, ancora di “Che ho fatto io per meritare questo?” ( capolavoro d’originalità) fino ad arrivare a “Matador” e “La legge del desiderio”. Probabilmente l’Almodòvar che ha provocato le critiche più controverse (a quanti stava sull’anima questo giovane regista - dissacratore dei valori più solidi della società filocattolica spagnola), ma anche il più autentico.



L’uscita, nel 1988, di “Donne sull'orlo di una crisi di nervi”, sua settima fatica, segna un radicale ampliamento della popolarità del regista castigliano, la sua opera sconfina al di là della Spagna e la critica internazionale incomincia ad occuparsi di lui. In "Donne sull'orlo di una crisi di nervi" c'è ancora, tuttavia, quel gusto per l'assurdo e quel tocco ironico tipico dei primi film in super8, e anche la trama presenta analogie con i cortometraggi sperimentali.




Già con il bellissimo “Il fiore del mio segreto” s’intravede il passaggio alla maturità, o meglio ad una visione di sé, attraverso le sue opere, più misurata. Sembra spenta la vena libertaria della giovinezza, espressa tramite ogni possibile eccesso iconico, senza alcuna mediazione. Non sono offuscate, però, le note dissacratorie del suo pensiero, che per fortuna permangono quasi a sugellare la propria unicità.

Con la maturità e la responsabilità, derivante dal riconoscimento a livello mondiale, il nostro Pedro acquisisce una più marcata sensibilità e diventa regista adulto, stilisticamente inimitabile: riesce a dosare la propria passionalità, raffina le scelte tecniche e fa centro, come dicevo prima, con i due film che maggiormente lo rendono popolare e lo elevano al gotha della cinematografia mondiale. Beh, è ovvio che la libertà acquisita dalla riconosciuta consacrazione gli offre il varo per progetti più personali come il bellissimo “Volver”, un giro vorticoso nell’infanzia della Mancha, la sensibilità come omaggio nei confronti dell’universo femminile. Il momento in cui il regista riceve più ammirazione, dal pubblico soprattutto, che conquista universalmente.



Con gli “Gli abbracci spezzati” e “La pelle che abito”, le due ultime sue opere, il suo cinema si è fatto ancora più serioso ed autoriale, rispetto alle grottesche commedie dei primi anni, commedie che molti suoi fan iniziano a rimpiangere. Eppure l’osservazione attenta delle ultime sue opere rende evidente quanto sia cresciuto Almodòvar, di quanto si sia raffinato, attraverso le immagini curate nei dettagli con maniacale perizia, dona loro significato e forza espressiva, oggi più di ieri.

Ma, come ad ogni cosa, la maturità gli ha "tolto" la freschezza e la follia; I lavori della maturità sono stati senz’altro più apprezzati forse perché, pur trattando tematiche scottanti e delicate, la sfacciataggine dei primi racconti lascia spazio ad una narrazione più pacata e coinvolgente: lo spettatore ha tempo di riflettere, di godere del personale citazionismo, di cui le opere almodòvariane sono sempre più impregnate.
Chi ha avuto modo di apprezzare l’ultima fase di Almodóvar stenterà a credere che sia lo stesso regista della sua prima fase underground, creatore di un universo coloratissimo e kitsch, pervaso dalla sua grande vena di follia. Chi, al contrario, segue Pedro dall’inizio, percepirà l’assenza di tutto ciò, non riconoscendolo più nel suo raffinato distacco dalle storie, più freddo e analitico nell’esprimere la psicologia dei suoi nuovi personaggi, privi della potenza dei primi.



Probabilmente se n’è accorto anche il regista, dopo “Los abrazos rotos” e "La piel que habito" , pare che nel suo nuovo film abbandoni temporaneamente il melodramma, per tornare alla commedia ambientata a Madrid e ricca di dialoghi paradossali e brillanti come agli esordi.
Noi fedeli fan ci speriamo e lo attendiamo al prossimo festival di Cannes.

Categorie: Cinema registi, Cultura e spettacolo letture

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Grazie Reiner

Pubblicato il 10/12/2012 08:35:41 da amterme63
Reiner Werner Fassbinder è senz'altro uno dei più grandi registi degli anni '70. A lui dobbiamo capolavori come "Le lacrime amare di Petra von Kant", "Il matrimonio di Maria von Braun" e "Querelle". Ma anche le sue opere meno conosciute sono di grande valore artistico e mantengono intatto tutto il loro valore di anticonvenzionalità e forte spessore emotivo ed estetico. In altre parole le sue opere continuano tuttora a interessare, a coinvolgere, a lasciare affascinati e interdetti, in qualche maniera colpiti.
Il suo cinema quindi non è solo la testimonianza dello spirito di un'epoca, ma rappresenta anche un lascito universale che rimarrà sempre valido e d'interesse pure nelle epoche future.



Se si volesse indicare il valore e il ruolo che ha avuto la sua arte, la si potrebbe indicare come uno dei massimi contributi alla messa in dubbio del sistema di valori e certezze che si erano affermati durante il Novecento. In nome della verità, del rifiuto dell'ipocrisia e delle false illusioni, Fassbinder ha voluto mostrarci come il mondo umano e la realtà non siano altro che una vana lotta che porta solo alla sconfitta e alla morte come rifugio finale. Pur non essendo il suo un cinema esteriormente cruento o crudele, di fatto lo è con l'interiorità dei personaggi, sottoposti a smacchi e delusioni cocenti.
Insomma per Fassbinder la vita umana non ha certezze, non c'è niente a cui ci possiamo appigliare per essere felici, per vivere senza essere sfruttati. L'unico rifugio per liberarsi dalla sofferenza di vivere è la morte.
Si tratta della visione pessimista e fatalista del vivere umano che ha attraversato tutte le epoche della storia umana e che in Italia ha avuto il suo esponente più lucido ed efficace in Leopardi.

Quasi tutti i suoi film parlano di fallimento e scacco, soprattutto in campo affettivo. Già il titolo del suo primo film parla chiaro: "L'amore è più freddo della morte". Nelle sue prime opere c'è ancora un atteggiamento un po' distaccato e fatalista verso le disavventure dei suoi personaggi, più che altro impigliati e strozzati dalle convenzioni borghesi ("Perché il signor R è diventato matto? ") o nei freddi e ragionati ruoli di dominio e umiliazione ("Le lacrime amare di Petra von Kant", "Martha").
Con il passare del tempo, Fassbinder mette più pathos nella sua amara visione del mondo affettivo umano. I suoi personaggi diventano sensibili e allo stesso tempo deboli e quasi sprovveduti, sballottati e sfruttati cinicamente, per poi essere abbandonati quando non servono più. Nascono così le amarissime e pietose storie di Fox ("Il diritto del più forte"), di Erwin/Elvira ("Un anno con tredici lune") e di "Veronica Voss".
Con il suo ultimo film ("Querelle") Fassbinder sembrava avere imboccato di nuovo la strada del distacco, della cupa e fredda visione di un mondo regolato solo dagli istinti più inconfessati e (auto)distruttivi; una specie di trionfo della morte ("each man kills the thing he loves", ripete ossessiva Jean Moreau nel film).



Fassbinder ha anche portato la sua visione pessimista e disgregatrice nel campo del vivere sociale e collettivo, rimanendo però sempre coerente e coraggioso nel suo presupposto base di guardare in faccia alla pura e nuda verità (o almeno a ciò che lui riteneva tale) senza appoggiarsi ad alcuna illusione.
Aveva la rara dote di ritrarre il collettivo tramite le vicende dell'individuo. Raccontando i fatti banali e quotidiani del Signor Raab ("Perché il signor R è diventato matto? ") riesce a dare un resoconto critico corrosivo e impietoso del vuoto, del materialismo e della povertà spirituale della piccola borghesia tedesca. Con la storia di Fox ("Il diritto del più forte") offre uno dei ritratti più duri e critici dell'alta borghesia tedesca. Addirittura mette in gioco se stesso per illustrare lo stato d'animo collettivo della Germania alla prese con il terrorismo ("Germania in autunno").
La sintesi mirabile di questa sua grande dote artistica è però il film "Il matrimonio di Maria von Braun". Raccontando semplicemente il carattere, le avventure, le iniziative di una scaltra e intraprendente ragazza tedesca del dopoguerra, ci descrive metaforicamente la trasformazione della società tedesca, meglio forse che illustrando i fatti storici nudi e crudi.
In ogni caso anche nella sua visione sociale del vivere umano il risultato alla fine è lo stesso: scacco, sconfitta, rifugio nella morte.

Fassbinder ha iniziato la sua carriera cinematografica utilizzando i canoni stilistici della Nouvelle Vague francese, cioè delegando allo spettatore il compito di dare un senso alle immagini, in genere slegate fra di loro e puramente illustrative di stati d'animo.
A partire dal 1970 decide invece di avere un rapporto più diretto con lo spettatore, di comunicare non più tramite segni da interpretare ma puntando direttamente al cuore, all'animo, alla sensibilità di chi assiste visivamente a storie compiute. Al tal fine accentua il potenziale suggestivo di tutti i componenti dell'arte cinematografica: cura moltissimo la posizione della macchina da presa (inquadra spesso le vicende a distanza incorniciandole in porte o pareti per creare senso di claustrofobia o chiusura), le scenografie (per suggerire la qualità e il carattere dei personaggi che ci vivono), le musiche, la posizione dei personaggi nella scena (rendendola significativa ed emotiva), la presenza di specchi o altri elementi illusionistici che moltiplicano i punti di vista.
In altre parole ricorre ai mezzi rodati ed efficaci della tradizione melodrammatica hollywoodiana (soprattutto la sintesi perfetta raggiunta da Douglas Sirk) per colpire emotivamente lo spettatore e lasciare un segno indelebile nel suo animo.
A differenza di Sirk però, Fassbinder dopo aver commosso e amareggiato non concede nessuna speranza, gli ostacoli e le difficoltà vincono inesorabilmente senza possibilità di riscatto.

Coerentemente a ciò che rappresentava sullo schermo, Fassbinder stesso ha conosciuto nella sua vita solo rari scampoli di felicità o tranquillità, è stato segnato dal suicidio del suo compagno e dalla tragica e illusoria via di fuga nella droga. Anche per lui il rifugio finale, il sollievo a tutti i mali è stata la morte.
Eppure nonostante tutto è stato una persona coraggiosa e coerente, ha vissuto la sua vita come ha voluto, senza compromessi, libero di mostrarsi sempre e comunque per quello che era, senza vergogne o ipocrisie.
Grazie Fassbinder.

Categorie: Cinema registi

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Mezzo pieno, mezzo vuoto

Pubblicato il 04/12/2012 08:34:59 da cash



Lo scorso 19 agosto, Tony Scott lasciava questo mondo. Anzi, moriva (non sopporto le iperboli pindariche per evitare di nominare la morte - è scomparso all'affetto dei suoi cari, buonanima, etc.). Dardano Sacchetti, illustre sceneggiatore responsabile di quasi il 60% del cinema di genere horror/thriller, così chiosava (cito a memoria): "Morto uno dei fratelli Scott, uno mezzo pieno, l'altro mezzo vuoto". Geniale. Soprattutto il fatto di non assegnare il posto di mezzo vuoto e quello di mezzo pieno. Generalmente, il ruolo di regista mezzo pieno, virtù semipositiva, dovrebbe essere assegnato a Ridley. Il regista mezzo vuoto, lacuna seminegativa, Tony. Forse la somma dei due dovrebbe risultare un regista totale, non so, ma non è questo il punto. Il fatto è come preferirei essere giudicato io; preferirei essere ricordato come un quasiautore con troppe lacune per essere tale o un ottimo regista troppo spesso naive per essere un grande autore? Attenzione perchè la questione non è pura semantica speculativa. Come sempre, la Merda è il parametro discriminante. Ridley, è vero che dalla tua hai Alien, Blade Runner e... E basta. Cioè, non roba a livello. Hai fissato un parametro, poi con la gloria riflessa (non sempre tua, nelle immaginifiche visioni della metropoli dei Nexus non c'è un grammo che sia tuo) ti sei ingozzato come un porco, e hai cagato sulla tua stessa produzione. Davvero tanta merda. Tony, tu invece non hai mai beccato il filmone che zac, stende sia critica che botteghino. Logico, pensavi più al pubblico e meno ai premi. Più defilato, meno arrogante e fracassone, parlavi meno forbito e giravi meno forbito. Sei mezzo vuoto? Ma forse il bicchiere non l'hai riempito volutamente, non sei stato reso ebbro da un successo ormai preistorico, come tuo fratello. E non ti sei mai cagato addosso. Facile ridere di Top Gun adesso, ma tutti da ragazzini (per gli over 30, of course) abbiamo voluto essere Tom Cruise su quei cazzo di aerei. E Beverly Hills Cop 2, e Una vita al massimo... Insomma, 'fanculo Ridley. Adesso stasera ci vediamo tutti L'ultimo boyscout e poi, in un guizzo di lucidità, sarà immediatamente ovvio perchè Ridley è mezzo vuoto; perchè non gli è mai venuto in mente di scritturare un Bruce Willis qualsiasi che ad Alien gli faceva un culo così a testate. Ma tanto, quando uno pensa ad Alien il pensiero va subito al sequel di Cameron...   

Categorie: Cinema registi, Cinema riflessioni sparse

Commenti: 8, ultimo il 12/12/2012 alle 17.12.43 - Inserisci un commento

Cesare deve morire

Pubblicato il 22/11/2012 08:36:12 da The Gaunt
Rispettivamente classe '31 e classe '29, Paolo e Vittorio Taviani si possono certamente definire registi con una onorata carriera alle spalle. Certo non sono i primi nomi che vengono in mente in un'ipotetica classifica dei migliori cineasti italiani di sempre, ma è indubbio che la loro carriera non è stata avara di soddisfazioni, in primis la Palma d'oro a Cannes per Padre padrone.
Ad ottant'anni suonati dopo una carriera di tutto rispetto, cosa ti combinano? A dispetto di chi li considerava "bolliti" (e anche chi scrive ci si mette, facendo pubblica ammenda), lasciano la classica pellicola per passare al digitale e con una troupe scarna ma perfettamente funzionale all'ambientazione, dirigono quello che probabilmente è stato il miglior film italiano della precedente stagione cinematografica: Cesare deve morire.



Con l'ausilio fondamentale di Fabio Cavalli, vero e proprio tramite tra gli attori carcerati e i Taviani, il carcere di Rebibbia diventa l'immenso palco della tragedia shakespiriana in cui gli orrori del proprio passato sono esorcizzati entrando nei personaggi della piece teatrale e creando una forte empatia tra spettatori e film. Una pellicola che coinvolge e sconvolge. Documentario, teatro e cinema sono fusi in maniera perfetta. Il carcere rimane il luogo di punizione per eccellenza, ma può essere il luogo della redenzione dello spirito umano. La scoperta dell'Arte, assorbirla, può lenire gli orrori di un passato fatto di scelte sbagliate ed errori a volte non più riparabili. Una speranza di rinascita all'interno delle sbarre.



E' notizia di poco tempo fa che Cesare deve morire ha ricevuto tre canditature agli EFA europei (miglior film, miglior regia, miglior montaggio). Altre piccole soddisfazioni per i fratelli di S.Miniato. La concorrenza tuttavia è fortissima, Amour di Haneke in primo luogo, il grosso riscontro perlomeno dal punto di vista commerciale di Quasi amici della coppia Nakache/Toledano, Il sospetto di Vinterberg, Shame di McQueen e l'outsider Barbara di Christian Petzold.
Concorrenza che si ripresenterà insieme ad altri rappresentanti degli altri continenti per ciò che riguarda la successiva notte degli Oscar.
Cesare deve morire è stato scelto per rappresentare i colori italici alla prossima parata di stelle di Los Angeles nella categoria del miglior film straniero. Speranze? Non molte ed in fondo, a livello personale, vado anche di scaramanzia considerato che l'Italia è ancora scottata dall'esperienza negativa di Gomorra, Gran Premio Speciale della Giuria a Cannes (ad ex aequo con Il Divo di Sorrentino) e dopo aver fatto incetta di premi proprio agli EFA europei. Risultato: Gomorra non è entrato nemmeno nella cinquina finale creando un certo stupore, visti gli altri componenti di quella cinquina.

Con il film dei Taviani è consigliabile volare basso. Arrivare alla vittoria dell'Oscar sarebbe un risultato quasi miracoloso, fare parte della cinquina finale per aggiudicarsi la statuetta sarebbe già un successo.
Certamente con questa pellicola troverebbero pane per i loro denti (e lo era anche per Gomorra) tutti coloro che periodicamente accusano il cinema italiano di eccessivo provincialismo.
Un'accusa che in qualche caso è talmente risibile che, prendendo in esame certa stampa ed esponenti del cinema estero, ci vedono ancora al livello di pizza e mandolino.

Festival del cinema Roma 2012: bilancio

Pubblicato il 20/11/2012 08:34:29 da Stefano Santoli
Dell’ultima edizione del festival di Roma si può tracciare un bilancio diverso a seconda dei punti di vista: qualità dei film, scelte istituzionali, organizzazione.
Dal punto di vista della qualità dei film il bilancio è largamente positivo. Ci sono piaciute, e molto, le scelte compiute da Müller in campo artistico.
Sulle scelte politiche e commerciali (in termini di visibilità, attenzione al pubblico, scelta dei componenti delle giurie, e – non da ultimo – film premiati) molte sono state le polemiche: qui il bilancio è meno roseo.
Il terzo punto di vista riguarda l’organizzazione (scelta degli spazi, prezzi, concomitanza di eventi, gestione delle sale e del pubblico). Sotto quest’ultima prospettiva, il festival è stato insoddisfacente.

Una rassegna di qualità.

Ricorderemo la settima edizione del festival di Roma come quella in cui il concorso è diventato finalmente un concorso di primo piano. Sino al 2011 gli autori erano semi-sconosciuti, i film mediamente sotto la sufficienza: invece, la selezione ufficiale del 2012 è paragonabile a un’edizione del festival di Berlino. Persino a un’edizione di Venezia, che fosse priva di quei due-tre registi di calibro che sempre sono presenti, in concorso, sul lido (insieme però a non poche pellicole scarse). La scelta, esplicita, di Roma 2012, è stata di orientarsi prevalentemente su autori giovani e opere seconde o terze di registi emergenti di riconosciuto talento. Una scelta che ci piace, così come ci piace l’intenzione di presentare tutte anteprime internazionali, affinché il festival passi, da vetrina per prodotti già in circolo, a trampolino di lancio per opere di qualità artistica. L’auspicio è che, a partire da questa edizione, autori e case di produzione guardino a Roma come a un festival in cui l'essere selezionati sia segno di prestigio.

Valérie Donzelli e Alexey Fedorchenko: due nomi di punta del cinema europeo del momento, già passati negli ultimi due anni per Cannes e Venezia, ciascuno con un film per cui si è gridato al capolavoro (rispettivamente "La guerra è dichiarata" e “Silent souls”). A Roma 2012 hanno presentato “Main dans la main”, commedia raffinata di altissimo spessore (su cui si rimanda alla recensione), e “Spose celestiali dei Mari di pianura”. Quest’ultima è una pellicola di raro valore: dedicata a un’etnia che ha mantenuto tradizioni pre-cristiane (i Mari), e che sopravvive in Russia in una regione situata negli Urali, il film è notevole anche per la struttura, ripartita in oltre venti frammenti che costituiscono un insieme omogeneo, in forma di realismo magico (ispirato alle tradizioni di quel popolo), su femminilità e sessualità, con un occhio al Decameron di Boccaccio e uno a quello di Pasolini. Un film di fruizione difficile, ma di pregio altissimo.

Accanto a questi due talenti, tre autori con una brillante carriera alle spalle, nessuno dei quali ha deluso: Johnnie To, Jacques Doillon e Miike Takeshi.
Johnnie To continua imperterrito un cinema d’azione poliziesca geometrico e impietosamente asciutto. Il suo “Drug war” si segnala non solo per essere il primo film che parla di traffico di droga nella Cina contemporanea, ma anche per un’interessante commistione fra i codici del genere e uno spirito di denuncia che a tratti fa pensare a “Gomorra”. E si chiude con un’esecuzione capitale: una scena forse eticamente discutibile (è a favore o contro la pena di morte?), ma assolutamente memorabile.
Jacques Doillon è un epigono della Nouvelle Vague, amatissimo in Francia anche se pressoché sconosciuto in Italia. Anche lui, con “Un enfant de toi”, resta fedelissimo al suo stile: fatto di dialoghi, recitazione en plein air e capacità di restituire la vita colta in presa diretta. Il vino buono migliora con l’età.
Il regista di culto Miike Takashi prosegue il suo percorso estremo, che attende ancora il riconoscimento che gli spetta per capacità di innovazione linguistica. “Lessons of the evil” è un altissimo risultato e si colloca dalle parti di “Audition” alle vette del suo cinema. Ed è colmo di sequenze irresistibili girate divinamente.



“The motel life”, opera prima dei fratelli Polsky e vincitore del premio del pubblico, è un film indipendente, in stile Sundance, che si regge su una strepitosa interpretazione di Stephen Dorff, su un immaginifico ricorso a intermezzi animati, e su un finale meraviglioso per intensità che non contraddice il minimalismo carveriano della pellicola. Il film è stato premiato anche per la sceneggiatura, tratta da un apprezzato romanzo di Willy Vlautin.
“A glimpse inside the mind of Charles Swan III”, opera seconda di Roman Coppola, figlio di Francis e fratello di Sofia, è molto piaciuto. Sembra la versione divertente, e francamente più riuscita, di “Somewhere” di Sofia Coppola (che pure vinse un Leone d’oro nel 2010). Roman Coppola parla di un adolescente fuori tempo massimo, che l’abbondanza in cui è cresciuto non soddisfa più, e che una delusione d'amore spinge a un riscatto e a una vita più autentica. Coppola ha uno stile vicino a Wes Anderson, con cui ha collaborato in passato, e a tratti ricorda anche il primo Allen. Cast importante (tra gli altri, spicca il solito Bill Murray), tempi comici perfetti, ritmo e invenzioni visive. Evidentemente autobiografico e irresistibilmente autoironico, l’alter ego del regista è il protagonista Charlie Sheen (non per caso, anche lui figlio d'arte).
Altro film di figli d’arte è “Ixjana” dei fratelli Skolimowski, forse non riuscito ma intrigante: un’ambiziosa attualizzazione del mito di Faust, con espliciti rimandi a Bulgakov, in uno stile che risente persino troppo della lezione di David Lynch.

Fin qui i film che abbiamo potuto vedere. Si è parlato un gran bene, in termini artistici, anche di “Mai morire”, opera seconda del messicano Enrique Rivero. Notevole la presenza in concorso di un costoso kolossal storico cinese, “1942” di Feng Xiaogang, che annovera nel cast Adrien Brody e Tim Robbins. “Eterno ritorno” è un esercizio di stile – alla maniera di Raymond Queneau – di Kira Muratova, regista ucraina davvero poco nota, ma molto stimata dai pochi che hanno il privilegio di conoscerla.
“Marfa girl” di Larry Clark, premiato con il Marc’Aurelio d’oro, pare porsi in linea di assoluta coerenza con i suoi precedenti e controversi “Kids” e “Ken park”. Persino nel conferirgli il premio, la giuria ha voluto precisare la linearità della sua poetica, che a chi ha visto il film è parsa ostinazione o limitatezza di sguardo. Larry Clark è logorroico: ha più di qualche sassolino nella scarpa da togliersi contro Hollywood (a suon di “fuck”) e una singolare teoria sul futuro ormai esclusivamente web del cinema sulla quale siamo oltremodo scettici. Sembra piuttosto un paravento per un settantenne pieno di sé, che sinora non aveva mai avuto riconoscimenti importanti.



Abbiamo lasciato per ultimi gli italiani in concorso. “Alì ha gli occhi azzurri” (primo lungometraggio di Claudio Giovannesi), ispirato a Pasolini e ambientato sul litorale romano, è piaciuto molto, e ha vinto ben due premi importanti: il Premio speciale della giuria e il Premio "migliore opera prima o seconda". Se ne dice un gran bene. E’ nelle sale.
Pappi Corsicato, con “Il volto di un’altra”, ennesima commedia surreale nel suo stile scombiccherato, parla stavolta di chirurgia plastica: ha riscosso pareri tiepidi, tutt’al più benevoli.
Ben altro scalpore ha suscitato l’autocompiaciuto Paolo Franchi, ennesima incarnazione della stirpe antonioniana del cinema italiano. L’autore, dopo il promettente esordio de “La spettatrice”, aveva deluso critica e pubblico con “Nessuna qualità agli eroi”, passato cinque anni fa in concorso al festival di Venezia. Ora torna, irredento, con un film - "E la chiamano estate" - apparso estremo nel linguaggio, nell'altezzosa osticità e nella deliberata provocatorietà di immagini e temi. Un film che, a quanto risulta, persegue sia l’intento di "trasgredire e scandalizzare" (?), sia quello di inimicarsi orgogliosamente pubblico e critica: contraddittorio? Ha vinto il Premio per la miglior regia e quello per la miglior interpretazione femminile (Isabella Ferrari). E ha scatenato un putiferio (roba da "vergogna!" urlati in mezzo ai fischi, durante la premiazione). La giuria (presieduta da Jeff Nichols, forse troppo giovane per essere autorevolmente indipendente) è stata influenzata dalla committenza (la direzione artistica)? E’ legittimo ipotizzarlo. Senz’altro, le arzigogolate motivazioni con cui i due premi sono stati assegnati sanno di giustificazione. Excutatio non petita, accusatio manifesta.
Le scelte delle giurie sono spesso dettate da pressioni esterne: è una piaga che affligge i concorsi di ogni ordine e grado. Per Roma 2012, se non altro, gli evidenti motivi "istituzionali" dei due riconoscimenti più importanti sono stati esplicitamente rivendicati dai rispettivi autori: "Marfa girl" è anti-hollywoodiano e indipendente al 100% (sarà diffuso solo online); "E la chiamano estate" è un film prodotto "senza la televisione".



Miopia organizzativa e mancato riguardo per il pubblico.

Fuori concorso, o nelle sezioni parallele (CineMAXXI; Prospettive Italia; Alice nella città) è passato, rispetto agli anni scorsi, un numero minore di film di rilievo, e un numero davvero esiguo di film di appetibilità popolare. Poche le star all’Auditorium (tranne Sylvester Stallone protagonista del buon action “Bullet to the head”, di Walter Hill); a parte Placido praticamente nessun regista di richiamo per le masse.
E’ una scelta sbagliata: può andar bene in concorso, ma fuori concorso un festival che si rispetti deve avere qualche film di richiamo. E non deve limitarsi per orgoglio a film rigorosamente in anteprima. Soprattutto se si svolge in una metropoli, una capitale del cinema, con disponibilità di spazi adeguati come Roma.
Troppa austerità ha penalizzato l’immagine di un festival che veniva apprezzato, dai romani, in particolare per l’ampia proposta di incontri con autori ed attori, quest’anno drasticamente ridotta.
Incomprensibile tra l'altro la scelta del film di apertura, caduta su un'opera pure di dubbia caratura artistica: “Aspettando il mare”, di un regista ignoto ai più e totalmente privo dell’appeal che un film d’apertura dovrebbe possedere (vedi recensione).

Tra i film potenzialmente interessanti delle sezioni secondarie abbiamo visto il bell’esordio di Francesco Amato con “Cosimo e Nicole”, che ha vinto la sezione Prospettive Italia, e “Il regno delle Carte”, trasposizione di un’opera teatrale di Tagore, del videoartista indiano Q. Occorre denunciare i preconcetti per cui film che parlano un linguaggio originale e innovativo, come il film indiano, debbano essere in qualche modo ghettizzati entro i limiti di una rassegna che furbescamente allude, nel nome, al cinema d'arte del XXI secolo (la sezione CineMAXXI è frutto di collaborazione fra Cinema per Roma e il MAXXI, museo romano delle "arti del XXI secolo"), e tenuti lontano dai riflettori proprio in una rassegna così attenta alla qualità artistica. I preconcetti purtroppo condizionano la percezione di ciò che è all’avanguardia, limitano la libertà di linguaggio, e orientano le “tendenze” in modo da renderne ardua la spontaneità.
Da CineMAXXI meritano una menzione anche opere sperimentali di metalinguaggio, firmate da autori come Mike Figgis (“Suspension of disbelief”) e Paul Verhoeven (“Steekspel”).
Segnaliamo la presenza (sempre in CinemaXXI...) del grande Peter Greenaway con il suo ultimo lavoro (“Goltzius and the pelican company”), dell’ultracentenario De Oliveira, presente con due corti in opere collettive (“Centro Historico” e “Mundo invisivel”, entrambe interessanti), e dell’affermata Marjane Satrapi con la divertente commedia nera “La bande de Jotas”.
A riguardo, va denunciata la scelta, delirante – miope anche dal punto di vista commerciale – di confinare in sale assolutamente secondarie le pellicole di Greenaway e della Satrapi (entrambe di grande richiamo, per i cinefili, che sono molti più di quanti si creda): con il risultato di creare scomodissimi “tutto esaurito” e grande scontento da parte degli accreditati, rimasti esclusi dalle proiezioni perché i biglietti erano stati venduti venendo vergognosamente meno al rispetto della garanzia – assicurata su programmi e regolamenti – di un numero di posti riservati agli accreditati in tutte le proiezioni.
E, ciò, mentre pellicole evidentemente “raccomandate” andavano disertate in sale grandi come la Sinopoli (è il caso di “Photo”, pur non disprezzabile, di un esordiente portoghese)!

Incondivisibile la scelta, dettata da presumibili ragioni di bilancio, di escludere dagli spazi dedicati al festival la sala più nobile e grande dell’Auditorium, la Santa Cecilia.
Scandalosa la scelta di alzare i prezzi delle proiezioni serali a 25 e 30 euro, laddove sino allo scorso anno le proiezioni più care erano quelle della Santa Cecilia, i cui 23 euro sembravano già una cifra improponibile.

In conclusione, mentre andiamo fieri della qualità artistica del concorso, come si accennava in apertura dal punto di vista dell’attenzione al pubblico e delle scelte organizzative, il festival di Roma del 2012 merita invece una sonora bocciatura.

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