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"Sacro Gra", il realismo del XXI secolo

Pubblicato il 02/10/2013 10:33:46 da amterme63


La premiazione con il Leone d'oro del film di Gianfranco Rosi "Sacro Gra" all'ultimo Festival del film di Venezia, certifica la nascita di un nuovo stile cinematografico prettamente italiano, uno stile ancora senza nome, che potrebbe chiamarsi il "realismo del XXI secolo".
Il film capostipite di questo nuovo stile è "Gomorra" di Matteo Garrone, di cui "Sacro Gra" riprende lo stile spezzettato e anti-narrativo e l'ambientazione degradata di periferia cittadina.

Come tutti i realismi, si propone di rappresentare il più possibile in maniera diretta e sincera la vita sociale e quotidiana nel suo svolgersi più prosaico e banale. Ciò che lo fa "italiano" è la volontà di andare a cercare il reale nella vita della gente comune di basso strato sociale e che abita le periferie delle città. Come "Sciuscia", "Ladri di biciclette" e "Miracolo a Milano", "Gomorra e "Sacro Gra" cercano di riprodurre sullo schermo la vita quotidiana, le difficoltà, le aspirazioni, i sentimenti e i modi di vivere della gente comune di periferia, sicuramente quella che possiamo definire come "l'Italia profonda".

La differenza che più salta all'occhio nel confrontare l'Italia del Dopoguerra con l'Italia del XXI secolo è il diverso tipo di povertà, che devasta la società italiana. Una volta si soffriva drammaticamente per la povertà materiale, per la mancanza delle cose basilari e sopravvivere era una dura lotta; in compenso si era ricchi di speranza e voglia di riscatto e si poteva contare sull'aiuto, la preziosa solidarietà reciproca o di gruppo.
Oggi la situazione è rovesciata. C'è ancora disagio materiale, ma non in maniera così drammatica. Non si soffre più la fame. Tutti possono avere almeno un computer, una televisione, un fotoromanzo. Tutti scimmiottano la società opulenta dei consumi. La povertà drammatica e devastante è piuttosto quella spirituale. Il profondo degrado è soprattutto etico e sentimentale: solitudine, noia, egoismo, chiusura nel proprio mondo e nei propri interessi gretti e limitati.

"Sacro Gra" e "Gomorra" sono lo specchio impassibile dello stato di disgregazione e disagio dell'attuale vita popolare italiana. Una presa di coscienza del fatto che forse non viviamo più nel "Bel paese", ma in una confusionaria e caotica distesa di cemento, asfalto e rifiuti, abitata da relitti umani.

Il destino del realismo del XXI secolo non sarà certo diverso da quello del Dopoguerra. Interesserà a una minoranza di persone "consapevoli" e verrà respinto dalla stragrande maggioranza del pubblico cinematografico. Un po' perché un cinema del genere ci sbatte in faccia le nostre miserie spirituali (quelle che cerchiamo continuamente di rimuovere) e poi perché lo fa in aperta opposizione a quello che è l'attuale imperativo cinematografico, cioè quello di provocare il massimo di emozione (che sia paura, tensione, interesse, commozione o allegria).
Il grado di assuefazione dello spettatore medio al cinema di "evasione" è tale che si è perso ormai quasi del tutto il concetto di arte come nuda e pura rivelazione di ciò che in genere non viene mostrato o che viene rimosso.
Eppure sono proprio i film come "Sacro Gra" o "Gomorra" che i nostri posteri ricorderanno e che meglio di tutti spiegheranno alle generazioni future come era l'Italia all'inizio del XXI secolo.

Categorie: Cinema approfondimenti

Commenti: 7, ultimo il 07/10/2013 alle 18.40.51 - Inserisci un commento

Un grande distruttore della ragione

Pubblicato il 28/02/2013 10:26:14 da amterme63


Il cinema è arte e l'arte è l'espressione diretta dell'universo spirituale umano. Certi film, certi registi riescono a esprimere stati d'animo collettivi meglio di trattati o di conferenze. Lynch e la sua filmografia occupano uno dei posti di rilievo in quella corrente artistica, sorta soprattutto dagli anni '70 in poi, che esprime sentimento di smarrimento, incertezza, perdita di punti di riferimento, paura e instabilità. Tutto questo semplicemente usando il potere illusorio ed evocativo che possiede l'immagine filmata su pellicola. La tecnica artistica usata da Lynch, soprattutto in alcuni film, è fra le più originali ed estreme, allo stesso tempo semplice e complessa, senz'altro unica e irripetibile.

Lo si vede subito guardando le prime opere del regista: i cortometraggi "The Alphabet" e soprattutto "The Grandmother". Sono opere povere, scarne, non parlate (semplici appunto) ma molto suggestive, grazie alla stranezza, all'originale visionarietà e alla fantasia di stampo inquietante e onirico di tutte le scene (quindi molto complesse). La quasi totale mancanza di nessi logici è compensata dalla forte suggestione evocativa e simbolica delle immagini. Come in quasi tutte le opere d'arte moderna, è compito dello spettatore riflettere e trovare all'interno della propria sensibilità le tracce emotive lasciate dall'esperienza estetica.



Il coronamento di questa prima fase "sperimentale" è il lungometraggio "Eraserhead", uno dei capolavori del cinema cosiddetto "d'avanguardia". Anche "Eraserhead" è un film scarno, semplice, senza nessuna pretesa di bellezza o fascino visivo; anzi stride per il degrado e l'inospitalità dell'ambientazione, la povertà materiale ed umana ritratta, l'irrompere del mostruoso, dell'inquietante e del destabilizzante. Tutta la pellicola, dall'inizio alla fine, è pervasa da un disagio angoscioso che si taglia con il coltello. Realtà, sogno, desideri, incubi, angosce, sensi di colpa si mescolano in una miscela amara e disturbante.
Il rimosso umano si prende la sua rivincita artistica e diventa padrone, mostrando l'altra faccia di noi stessi, quella insicura, debole, angosciata.

Dopo quest'opera estrema Lynch si cimenta con il cinema cosiddetto "mainstream". Lo fa con grande mestiere e perizia tecnica, senza rinunciare però ad alludere al mondo oscuro e nascosto che si cela dietro l'apparente ordine della "normalità". Nel suo capolavoro "The Elephant Man" l'orribile non è rappresentato dalle menomazioni fisiche del protagonista, ma dalla cattiveria e dal vizio che si celano dietro i fisicamente normali. Nell'opera successiva, il kolossal film di formazione "Dune", appare per la prima volta un personaggio completamente "negativo" (il barone Vladimir Harkonnen), primo grezzo esempio di quel "male", di quella parte bestiale, violenta e pervertita che da ora in poi abiterà spesso i film di Lynch.

"Velluto blu" infatti è la prima opera che tratta del sottile e pericolo fascino che ha l'oscuro, il violento e lo sconosciuto sulla psiche dei cosiddetti "normali". Una coppia di giovani perbene, appartenenti alla classe media, è come presa dalla smania di sapere, conoscere, vivere quella parte violenta, perversa e cattiva che abita, vive e prospera dietro le belle facciate e l'ordine apparente. E' un fascino sottile e irresistibile che mostra quanto sia debole la ragione e come possa essere facilmente "macchiata", se non stravolta.



Inganno delle apparenze, fascino destabilizzante del male sono la colonna portante del serial televisivo "Twin Peaks", nonché del suo prequel "Fuoco cammina con me". Le vicende e il destino finale del personaggio di Cooper (la quintessenza della "ragione") sono indicative del fascino irresistibile e fagocitante che ha l'irrazionale e di come questo riesca facilmente a distruggere, a destabilizzare anche chi si crede forte e senza paura.
Male e bene da aspetti caratteriali e individuali si fanno sempre di più nei film di Lynch sostanza spirituale, onirica, quasi metafisica, e sempre di più tendono a confondersi fra di loro, ad essere quasi indistinguibili l'uno con l'altro. I protagonisti di "Cuore selvaggio" non sono degli stinchi di santo, ma del resto intorno a loro non trovano niente di positivo che li possa salvare o rendere felici; deve intervenire addirittura qualcosa di "magico" e metafisico a "salvarli".

Comunque è con "Strade perdute" che si apre l'ultima parte del percorso artistico di Lynch, quella in cui si cerca di arrivare all'essenza del mondo umano, sia in positivo che in negativo. In "Strade perdute" si certifica per la prima volta la perdita della cognizione certa e sicura del reale, si apre la strada alla crisi del concetto di identità, si constata la facilità con cui si cede agli istinti distruttivi. Il reale e l'onirico si mescolano, si interdigitano, concorrono a creare un quadro generale di continua insicurezza e angoscia, da cui non è più possibile uscire.

In mezzo a queste visioni desolanti del mondo umano, Lynch è come se si fosse improvvisamente fermato ad esaminare invece ciò che potrebbe esistere di sano e positivo nel mondo umano, l'essenza che lo potrebbe tenere unito. Ne è venuta fuori quell'opera dimessa e profondissima che è "Una storia vera", in cui si individua nel semplice, nel naturale, nel piccolo e nel modesto il valore vero e supremo della coesistenza umana.



E' stato però solo un lampo. Subito ritorna il buio, il buio sempre più fitto dello smarrimento e della perdita delle certezze e dei punti di riferimento "razionali". "Mulholland Drive" è una raffinatissima opera di decostruzione della percezione di reale e di immaginato, di vero e di falso, di bene e di male. Ancora più che in "Strade perdute" si fa fatica a distinguere l'uno dall'altro, tanto più che Lynch attribuisce alla parte "sognata" la varietà, la spigliatezza, l'ironia e la verve che in genere sperimentiamo da svegli; mentre la parte che corrisponderebbe al "reale" appare grigia, cupa, degradata e angosciosa. L'inconscio ci condiziona più di quanto immaginiamo e rischia addirittura di mescolarsi e sostituirsi a ciò che noi riteniamo reale.

Ed è quello che accadrà nell'ultima opera di Lynch, una delle vette artistiche del cinema degli ultimi anni. Fino ad ora era sempre la parte razionale e reale (distinta e riconoscibile) che evocava la parte inconscia e onirica (rimanendone travolta), con "INLAND EMPIRE" Lynch va oltre: supera del tutto la fondamentale distinzione percettiva umana fra reale e immaginato, per creare qualcosa di completamente nuovo e mai concepito prima. Ne viene fuori un flusso di coscienza all'apparenza caotico, ma in realtà stringente, terribilmente umano nella sua emotività angosciata e angosciante.
"INLAND EMPIRE" è un ambizioso esperimento artistico di portata epocale, un'opera radicalmente nuova, il punto di arrivo di un percorso di ricerca artistica espressiva originale che mira a fondere conscio e subconscio, realtà e sogno, in una nuova sostanza spirituale, destinata forse ad abitare gli animi umani nei secoli a venire.

Categorie: Cinema registi

Commenti: 15, ultimo il 04/03/2013 alle 10.47.06 - Inserisci un commento

Grazie Reiner

Pubblicato il 10/12/2012 08:35:41 da amterme63
Reiner Werner Fassbinder è senz'altro uno dei più grandi registi degli anni '70. A lui dobbiamo capolavori come "Le lacrime amare di Petra von Kant", "Il matrimonio di Maria von Braun" e "Querelle". Ma anche le sue opere meno conosciute sono di grande valore artistico e mantengono intatto tutto il loro valore di anticonvenzionalità e forte spessore emotivo ed estetico. In altre parole le sue opere continuano tuttora a interessare, a coinvolgere, a lasciare affascinati e interdetti, in qualche maniera colpiti.
Il suo cinema quindi non è solo la testimonianza dello spirito di un'epoca, ma rappresenta anche un lascito universale che rimarrà sempre valido e d'interesse pure nelle epoche future.



Se si volesse indicare il valore e il ruolo che ha avuto la sua arte, la si potrebbe indicare come uno dei massimi contributi alla messa in dubbio del sistema di valori e certezze che si erano affermati durante il Novecento. In nome della verità, del rifiuto dell'ipocrisia e delle false illusioni, Fassbinder ha voluto mostrarci come il mondo umano e la realtà non siano altro che una vana lotta che porta solo alla sconfitta e alla morte come rifugio finale. Pur non essendo il suo un cinema esteriormente cruento o crudele, di fatto lo è con l'interiorità dei personaggi, sottoposti a smacchi e delusioni cocenti.
Insomma per Fassbinder la vita umana non ha certezze, non c'è niente a cui ci possiamo appigliare per essere felici, per vivere senza essere sfruttati. L'unico rifugio per liberarsi dalla sofferenza di vivere è la morte.
Si tratta della visione pessimista e fatalista del vivere umano che ha attraversato tutte le epoche della storia umana e che in Italia ha avuto il suo esponente più lucido ed efficace in Leopardi.

Quasi tutti i suoi film parlano di fallimento e scacco, soprattutto in campo affettivo. Già il titolo del suo primo film parla chiaro: "L'amore è più freddo della morte". Nelle sue prime opere c'è ancora un atteggiamento un po' distaccato e fatalista verso le disavventure dei suoi personaggi, più che altro impigliati e strozzati dalle convenzioni borghesi ("Perché il signor R è diventato matto? ") o nei freddi e ragionati ruoli di dominio e umiliazione ("Le lacrime amare di Petra von Kant", "Martha").
Con il passare del tempo, Fassbinder mette più pathos nella sua amara visione del mondo affettivo umano. I suoi personaggi diventano sensibili e allo stesso tempo deboli e quasi sprovveduti, sballottati e sfruttati cinicamente, per poi essere abbandonati quando non servono più. Nascono così le amarissime e pietose storie di Fox ("Il diritto del più forte"), di Erwin/Elvira ("Un anno con tredici lune") e di "Veronica Voss".
Con il suo ultimo film ("Querelle") Fassbinder sembrava avere imboccato di nuovo la strada del distacco, della cupa e fredda visione di un mondo regolato solo dagli istinti più inconfessati e (auto)distruttivi; una specie di trionfo della morte ("each man kills the thing he loves", ripete ossessiva Jean Moreau nel film).



Fassbinder ha anche portato la sua visione pessimista e disgregatrice nel campo del vivere sociale e collettivo, rimanendo però sempre coerente e coraggioso nel suo presupposto base di guardare in faccia alla pura e nuda verità (o almeno a ciò che lui riteneva tale) senza appoggiarsi ad alcuna illusione.
Aveva la rara dote di ritrarre il collettivo tramite le vicende dell'individuo. Raccontando i fatti banali e quotidiani del Signor Raab ("Perché il signor R è diventato matto? ") riesce a dare un resoconto critico corrosivo e impietoso del vuoto, del materialismo e della povertà spirituale della piccola borghesia tedesca. Con la storia di Fox ("Il diritto del più forte") offre uno dei ritratti più duri e critici dell'alta borghesia tedesca. Addirittura mette in gioco se stesso per illustrare lo stato d'animo collettivo della Germania alla prese con il terrorismo ("Germania in autunno").
La sintesi mirabile di questa sua grande dote artistica è però il film "Il matrimonio di Maria von Braun". Raccontando semplicemente il carattere, le avventure, le iniziative di una scaltra e intraprendente ragazza tedesca del dopoguerra, ci descrive metaforicamente la trasformazione della società tedesca, meglio forse che illustrando i fatti storici nudi e crudi.
In ogni caso anche nella sua visione sociale del vivere umano il risultato alla fine è lo stesso: scacco, sconfitta, rifugio nella morte.

Fassbinder ha iniziato la sua carriera cinematografica utilizzando i canoni stilistici della Nouvelle Vague francese, cioè delegando allo spettatore il compito di dare un senso alle immagini, in genere slegate fra di loro e puramente illustrative di stati d'animo.
A partire dal 1970 decide invece di avere un rapporto più diretto con lo spettatore, di comunicare non più tramite segni da interpretare ma puntando direttamente al cuore, all'animo, alla sensibilità di chi assiste visivamente a storie compiute. Al tal fine accentua il potenziale suggestivo di tutti i componenti dell'arte cinematografica: cura moltissimo la posizione della macchina da presa (inquadra spesso le vicende a distanza incorniciandole in porte o pareti per creare senso di claustrofobia o chiusura), le scenografie (per suggerire la qualità e il carattere dei personaggi che ci vivono), le musiche, la posizione dei personaggi nella scena (rendendola significativa ed emotiva), la presenza di specchi o altri elementi illusionistici che moltiplicano i punti di vista.
In altre parole ricorre ai mezzi rodati ed efficaci della tradizione melodrammatica hollywoodiana (soprattutto la sintesi perfetta raggiunta da Douglas Sirk) per colpire emotivamente lo spettatore e lasciare un segno indelebile nel suo animo.
A differenza di Sirk però, Fassbinder dopo aver commosso e amareggiato non concede nessuna speranza, gli ostacoli e le difficoltà vincono inesorabilmente senza possibilità di riscatto.

Coerentemente a ciò che rappresentava sullo schermo, Fassbinder stesso ha conosciuto nella sua vita solo rari scampoli di felicità o tranquillità, è stato segnato dal suicidio del suo compagno e dalla tragica e illusoria via di fuga nella droga. Anche per lui il rifugio finale, il sollievo a tutti i mali è stata la morte.
Eppure nonostante tutto è stato una persona coraggiosa e coerente, ha vissuto la sua vita come ha voluto, senza compromessi, libero di mostrarsi sempre e comunque per quello che era, senza vergogne o ipocrisie.
Grazie Fassbinder.

Categorie: Cinema registi

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Il Mondo di Aki Kaurismaki

Pubblicato il 04/10/2012 08:40:21 da amterme63


Cinema ostico quello del regista finlandese Aki Kaurismaki: statico, minimalista, anticonvenzionale, non concede niente all'azione e allo spettacolo. Eppure i suoi film sono fra i più rilevanti e profondi fra quelli usciti negli ultimi anni. E' un cinema quindi da guardare non solo con gli occhi, ma soprattutto con la sensibilità e la riflessione.

Prerequisito per avvicinarsi all'arte di Aki Kaurismaki è di avere letto almeno un romanzo di Dostojevskij, avere visto L'argent di Bresson e conoscere il cinema di Jean-Luc Godard. Sì, perché per capire bene l'opera di Kaurismaki è meglio arrivarci già "preparati". In questa maniera non si rimane sorpresi nel vedere storie ambientate per lo più in bassifondi, fra i reietti della società, con i personaggi spesso vittime degli impietosi meccanismi di una società estranea e ostile. Come in Dostojevskij, Kaurismaki sta dalla parte del più debole, della persona brutta e insignificante, di chi vive ai margini. Nei suoi film i protagonisti sono per lo più spazzini o macellai, ex minatori o saldatori, commesse di supermercati od operaie in fabbriche di fiammiferi. Tutti con la loro dignitosa rassegnazione ad essere sfruttati, usati e gettati via quando non servono più. La sopravvivenza è qualcosa di molto duro e tra l'altro pure se si è capitani d'industria non si ha la vita facile ("Amleto si mette in affari").

Insomma, secondo Aki Kaurismaki è il mondo in cui viviamo (all'apparenza bello, sfavillante, godereccio) che letteralmente ci imprigiona, ci rinchiude, ci impoverisce, ci toglie la dignità di essere umani. Kaurismaki non fa altro che continuare lungo la strada aperta da quel film difficile e controverso che è "L'argent" di Bresson. E' come se l'esistenza nel mondo postmoderno venisse concepita come completamente svuotata di qualsiasi senso e valore. E' facile vedere nei film di Kaurismaki personaggi che siedono silenziosi e abulici in locali rumorosissimi, davanti a innumerevoli bottiglie di birra vuote e portaceneri stracolmi. Non si parla perché non c'è niente di cui parlare, non si comunica perché non c'è niente da comunicare, semplicemente perché non c'è niente nella vita che valga la pena vivere. Si è così ridotti a macchine e burattini che non si è nemmeno più capaci di conoscere se stessi, né di sapere esprimere ciò che si prova. L'amaro destino dei personaggi del mondo messo in scena da Kaurismaki è quello di vivere soli, impietosamente sfruttati e severamente puniti al minimo sgarro. Non ci sono vie d'uscita, se non sognando improbabili fughe.



La vita ordinaria filtrata da modi di rappresentazione "intellettuali" ed anticonvenzionali è la novità introdotta nel cinema dalla Nouvelle Vague. Kaurismaki segue questa strada stilistica imbastendo storie senza progressione narrativa, fatti di quadri statici apparentemente senza nesso fra di loro. Come nei film di Godard lo scopo non è narrare ma rappresentare. Si ha a che fare con film a tesi e quindi ciò che preme è trasmettere il concetto, più che giocare con l'emotività dello spettatore. Si rinuncia quindi spesso al gioco della suspense e al fascino estetico dell'immagine "bella". I suoi film sono ambientati quasi tutti in luoghi anonimi, spesso squallidi e degradati. I colori sono smorti, freddi.



Ma c'è qualcosa che differenzia Kaurismaki dall'ultimo Bresson. I suoi personaggi sono nonostante tutto vivi, in qualche maniera cercano disperatamente di comunicare, di legare fra di loro, di reagire. Insomma si è destinati a perdere o a soccombere ma almeno lo si fa combattendo. Nei suoi film si parla pochissimo, gli attori recitano centellinando i movimenti e le espressioni, eppure mai silenzio è stato più lancinante di un acutissimo grido di dolore. Ogni scena trasuda profondo dolore, immane disagio, per essendo silenziosa e statica. Tutto questo grazie all'arte di attori di grande valore come Matti Pellonpaa e Kati Outinen. Dove non possono le parole, comunque può la musica. In tanti film lo stato d'animo dei personaggi è rivelato da una canzone che viene trasmessa dalla radio o da un juke box, oppure suonata da qualche improbabile cantante o complessino neo-folk.

Tutto questo è contenuto nei primi film di Aki Kaurismaki, quelli più duri, quelli più cupi, forse quelli più belli, come "Ombre nel paradiso", "Ariel" e "La fiammiferaia". Poi è come se il regista finlandese avesse preso gusto nel proprio mestiere e alla fine sia approdato a una specie di riconciliazione con la vita. I primi segni si notano nel film "Leningrad cowboys go America", in cui vengono usate le figure estetiche che fino ad allora servivano a ritrarre il vuoto di vivere (staticità, anticonvenzionalità, abulia, sfortuna, ecc.) per farne oggetto di riciclo ludico (cedendo così alle convenzioni artistiche postmoderne). Non a caso è il film più commerciale e disimpegnato di Kaurismaki. La vera svolta etica avviene però con "Ho affittato un killer, in cui per la prima volta si dà valore alla vita in sé come esperienza positiva, da vivere comunque, in qualsiasi maniera ci si trovi ad affrontarla. I film seguenti riproporranno spesso il lieto fine, o comunque una speranza più concreta e netta. In ogni caso Kaurismaki non cerca mai di venire a patti con l'odiato sistema, anzi la sua critica contro la burocrazia e ogni genere di establishment si fa sempre più netto e puntuto di film in film. I personaggi però possono pensare di (sperare di) trovare un ambiente solidale pur nella miseria più nera ("L'uomo senza passato" - di nuovo un film alla Dostojevskij) e forse anche un aiuto insperato, una persona disposta a rinunciare a se stesso per gli altri.

Senza rinnegare completamente i presupposti pessimisti del suo mondo, Kaurismaki ha fatto rientrare dalla finestra concetti di natura quasi religiosa come speranza, aiuto reciproco, solidarietà, nuova norma per un nuovo vivere ("Miracolo a Le Havre"). In pratica il percorso inverso rispetto a Bresson, che partito da presupposti di fede è pervenuto alla fine ad un radicale e profondo nichilismo. Kaurismaki invece dalla rappresentazione dell'esistenza più nera e disperante è arrivato a intravedere come una luce in fondo al tunnel.

Forse perché anche lui ha capito che dal letame possono nascere fiori?

Categorie: Cinema registi

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