Recensione au hasard balthazar regia di Robert Bresson Francia 1966
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Recensione au hasard balthazar (1966)

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locandina del film AU HASARD BALTHAZAR

Immagine tratta dal film AU HASARD BALTHAZAR

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Immagine tratta dal film AU HASARD BALTHAZAR

Immagine tratta dal film AU HASARD BALTHAZAR

Immagine tratta dal film AU HASARD BALTHAZAR
 

Spesso nell'opera di vari autori, parallelamente alla ricerca stilistica e professionale, s'è accompagnata nondimeno quella esistenziale e mistica. Anzi si può dire che tali corrispondenti riflessioni, ne abbiano delineato insieme i diversi percorsi artistici, e che alla curva dell'una sia seguita quella dell'altra, conseguentemente.
A tale proposito, l'intera opera di Bresson appare oggi un'immensa preghiera, raccolta e recitata dentro una stanza spoglia, senza nulla alle pareti. Appare, il cinema di Bresson, una sorta di pellegrinaggio solitario, silenzioso, un cammino penitente, a piedi nudi sopra un sentiero sassoso, irto, che attraversa paesaggi brulli, roveti, erte, greti, campagne desolate, e che trova momenti di grande sconforto ma anche, e specie all'inizio, brevi radure illuminate dalla fede.
Le vicissitudini dei suoi personaggi (sempre la vicenda è individuale) divengono così le varie strofe di questa preghiera; o le tappe, misurate, di tale cammino. Le loro storie non si concludono definitivamente al termine d'ogni pellicola; ma s'evolvono spiritualmente; rivivono in quella successiva portando ad essa tutto il carico d'esperienza acquisito; rendendola, già in principio, vissuta e consapevole.
Così nello sguardo mesto di Balthazar rivivono, contemporaneamente, le anime di coloro che lo hanno preceduto: la conversa, il curato, il condannato, il ladro. Porterà a sua volta, assieme alle altre, la propria in quella di "Mouchette".

Il settimo lungometraggio di Bresson s'apre con un leggero scampanellio, che ne introduce già magnificamente l'ambientazione campagnola, lo spirito compassato, e ne presenta un primo simbolo terreno di purezza: un gregge mentre sta pascolando. In mezzo ad esso, un asinello, nato da poco, mentre ancora s'allatta dalla madre.
La bestiola viene adottata da una ragazzina, Marie, che decide di prendersene cura. L'asinello è battezzato col nome di Balthazar.

Il periodo della giovinezza viene raccontato da sequenze brevi, quasi senza una parola. Un'altalena. Una bambina malata. Marie e Jacques: i due nomi scritti sopra una panchina. Poi uno schiocco di frusta, e la spensieratezza è già strappata. Ha principio il calvario, che porterà Marie e Balthazar via via ad una separazione non voluta ma acconsentita, ad allontanarsi inesorabilmente, l'una dall'altro.
Il primo argomento di questa nuova strofa della preghiera Bressoniana, a differenza che nelle precedenti, è proprio nella vicenda del protagonista (la ragazza e assieme l'asinello) che si sdoppia, che procede per due strade parallele ma differenti, che talvolta si sfioreranno ancora, senza tuttavia mai più riunirsi.

Se da un lato Marie rimane la parte umana - in cerca d'amore, tormentata e costretta a vivere in mezzo al peccato, al pettegolezzo, alle ambizioni, alle invidie, alle venialità degli uomini e a confrontasti con loro - Balthazar è la parte pura, innocente, dignitosa. Un piccolo Cristo senza seguaci, che raglia piano, senza nulla da predicarci.
Passerà di mano in mano, di padrone in padrone, di campo in campo, sino a divenire, vivendo tale situazione con la stessa modestia con cui portava la soma, un fenomeno da circo.
Acconsentirà al mestiere di trainare gli aratri e i carretti di chiunque. Accetterà senza protestare ogni umiliazione subita. Quasi la sua umiltà compassionevole bastasse da sola a riscattare l'intero apparato delle negligenze umane.
Resisterà pazientando, a tale coraggiosa penitenza: ma invece di risanarsi, il male attorno tende ad aggravarsi. Insiste il peccato, la gelosia, l'omicidio, l'odio, la bramosia al denaro, "L'Argent".

Anche nello stile, in coerenza ai temi e al pensiero, Bresson prosegue la sua ricerca. Non c'è traccia d'enfasi nella recitazione. La cinepresa indugia su alcune parti del corpo. Le mani, i gesti contano più delle parole. Le ambientazioni sono minimali.
Alla lirica dei piccoli rumori s'affianca una musica discreta e delicata. L'emozioni sono ottenute mediante la privazione delle stesse. Ma non tanto vorremmo soffermarci su questi aspetti, non meno importanti, della pellicola di Bresson; quanto più sui significati profondi che essa ancora contiene e lascia interpretare.

Marie e Jacques tornano a sedere su quella panchina, ormai emblema dell'amore perduto. Il cuore di lei, però, è senza più amore, disseccato dalle arsure della vita. E Balthazar non è altro che un accoratissimo ricordo lontano. Nel mondo non c'è redenzione. Possibilità di estinguerne il male.
Ma allora a cosa può servire un'espiazione, ove non esiste speranza di correzione né salvezza? Qual'è il paradiso? Dove quell'elevazione spirituale a cui dovrebbe condurre l'ascetismo?
Essi non si trovano al di là, ma all'interno della rettitudine con cui s'è vissuto; sono nell'attimo medesimo della morte (ecco l'ultimo argomento della strofa, la liberazione raggiunta solo in virtù dell'estremo distacco, che il regista riprenderà e approfondirà nel successivo "Mouchette") affrontato con la stessa umiltà, con lo stesso ritegno, col silenzio coi quali s'è affrontato la vita.

Nel commovente, bellissimo finale, Bresson ci mostra in ultimo una raffigurazione del suo paradiso: una notte traversata da colpi d'armi da fuoco; il chiarore che segue d'un terso mattino; l'asinello è colpito, s'accascia... e in un quel prato ove servo ero nato, le pecore, come rispettosi angeli, si ritirano allora in commiserazione al simbolo d'innocenza che, lontano dagli uomini, muore modesto e silenzioso.

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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 20/10/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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