La passione dell'avventuriero Carlos Firmin Fitzgerald (Kinski), conosciuto con il nome di Fitzcarraldo, è la lirica. La sua idea fissa è quella di costruire un teatro d'opera a Iquitos, dove egli vive, nel cuore della foresta amazzonica. Per poter riuscire nel suo intento accetta di guidare una spedizione a bordo di un battello verso una ricchissima zona di alberi da gomma che intende sfruttare, e tenta imprese disperate di trasportare una nave al di là delle montagne.
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"Questa è una grande metafora, non so di cosa, ma è una grande metafora".
E' una grande metafora: la nave che avanza su per il fiume suonando, dal grammofono posto sulla prua, la musica lirica alla natura sorda, alla foresta fosca, ai suoi uomini invisibili, ineducati; l'arte che boriosa annuncia il proprio arrivo; la nave che, come la fede può spostarla, sa scavalcare un'intera montagna.. Eppure un film di Herzog non riesce a restare contenuto entro una metafora, per grande che essa sia: straborda, c'è sempre molto di più; come paesaggi veri, rapide vere, uomini veri, un'impresa vera, una storia vera. Anzi il film non riesce a contenersi neppure tra i suoi limiti temporali: ciò che avviene oltre, sul set, dietro o davanti la telecamera non fa molta differenza, diviene il film esso stesso.
Fitzcarraldo non è forse il film più bello di Herzog, ma è probabilmente il più ambizioso e allo stesso tempo il più intimo, quello che più ci parla dell'autore, di un folle che si rappresenta (e non poteva essere altrimenti) attraverso il suo migliore, irrequieto nemico alter ego, Kinski, qui quanto mai acceso da una carica luminosa e da un'ingenua bramosia, sognante e incoraggiato da una sorridentissima Cardinale.
Se Fitzcarraldo vuole portare il teatro in mezzo alla giungla, Herzog porta il teatro in mezzo alla giungla. Se Fitzcarraldo vuole trainare una nave al di là di una montagna, Herzog traina una nave al di là di una montagna. Fa tutto questo davvero. Il film è anche uno dei meno pessimistici, d'altronde il regista ci sta parlando di sé.
Egli cerca nell'estremo, dove più la natura infittendosi si fa ostile, nell'estremo dell'azione e dei luoghi incolti, l'uomo, i popoli, se stesso - come per Flaherty il suo interesse è antropologico - e là trova, dove le foglie coprono altre foglie, dove più le acque si fanno brune, la maggiore sofferenza, e tra gli uomini i comportamenti non tra i più umili ma spesso tra i più meschini: eppure tende al sublime, al sogno, ed è di tale 'peccato' che infondo qui ci parla, questo documentarista amante ancora e nonostante tutto dello spettacolo dell'arte.
C'è del resto anche in questo film un vasto mistero, quasi mistico, la grande nebbia che avvolge la foresta, gli atteggiamenti indecifrabili dei selvaggi, il risalire le acque enigmatiche di un fiume. Certi momenti, quell'atmosfera d'incertezza e di attesa, ricordano molto il viaggio di Aguirre, ma la meta questa volta non è l'oro materiale di Eldorado. Addirittura si punta oltre: non a trovare un mito o un'illusione, bensì a edificarli.
Ci sono poi, accanto al realismo dell'azione e degli ambienti, altre metafore, diversi simboli, come nel bellissimo episodio del treno - immobile in una stazione fatiscente e curato dal suo fedele custode ancora in divisa - quale emblema di un vecchio sogno abbandonato, che non può proseguire né retrocedere, e i quali binari torneranno utili per la realizzazione del nuovo progetto più grandioso.
E dunque il finale, ch'è forse il più felice di tutti i finali di Herzog, dove si respirano, assieme, fallimento e vittoria: e in quel re assiso e soddisfatto sul niente della musica; e in quella orchestra che fluttua, così, sopra le acque non più furiose, volteggiando senza più una meta.