Recensione la ragazza che sapeva troppo regia di Mario Bava Italia 1962
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Recensione la ragazza che sapeva troppo (1962)

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locandina del film LA RAGAZZA CHE SAPEVA TROPPO

Immagine tratta dal film LA RAGAZZA CHE SAPEVA TROPPO

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Nora Davis (Leticia Roman), una bionda ventenne americana in viaggio verso la capitale, fa conoscenza in aereo con un uomo gentile di nome De Vito, il quale le offre una sigaretta. Atterrati a Fiumicino, quando sono in coda alla dogana, l'uomo, con sorpresa della donna, è arrestato per contrabbando di marijuana. La droga veniva trasportata da De Vito in diversi pacchetti di sigarette, sistemati con cura nel sottofondo della valigetta da viaggio.

A Roma nella zona di piazza di Spagna, la ragazza è ospite di un'anziana amica di famiglia, Ethel, una donna la cui salute già cagionevole risulta, all'arrivo di Nora, aggravata: il polso ha una frequenza alta, e la sua respirazione sta per andare in apnea.
L'anziana è curata dal dottor Marcello Bassi (John Saxon), premuroso, disponibile e uomo assai attraente. La sera stessa, durante un inizio di temporale, l'anziana donna muore e Nora, non riuscendo a comunicare telefonicamente con il Dottor Bassi, si reca a piedi all'ospedale San Giacomo dove egli lavora. Durante il breve percorso Nora viene scippata della borsetta tra le scalinate deserte di Trinità dei Monti, e nella colluttazione col rapinatore cade per terra perdendo i sensi. Quando si riprende assiste all'omicidio di una donna che sembra essere stata appena accoltellata da un uomo di media età, distinto, con la barba, il quale porta poi via il cadavere. Nora impaurita sviene nuovamente.

Al mattino la ragazza è soccorsa da una persona dall'aspetto elegante che cerca di farla rinvenire stillandogli un po' di grappa tra le labbra ma, appena questi si avvede dell'arrivo di un poliziotto, si allontana velocemente. L'agente di polizia sentendo l'acre fragranza della grappa pensa che la ragazza stia male per via di una sbornia e la fa portare quindi all'Ospedale San Giacomo per accertamenti.
L'equipe medica formula una diagnosi un po' affrettata, semplicistica: "stato confusionale da sbornia"; ma il medico di turno, Marcello Bassi, non vuole che la ragazza rimanga all'ospedale e interviene per ricondurla a casa. Nora confida a Bassi di aver assistito ad un delitto, ma Marcello non le crede, pensa sia un delirio, un vaneggiamento causato dallo spavento che la rapina le aveva procurato.
Al funerale di Ethel Nora conosce la signora Laura (convincente l'interpretazione di Valentina Cortese), una signora elegante e molto disponibile, gentile, dallo stato psichico un po' euforico che la invita a trascorrere il resto della vacanza nel suo appartamento situato a pochi metri dal luogo dell'omicidio. La ragazza accetta e Laura, come d'accordo, parte subito dopo per Berna per raggiungere il marito che lavora in quella città. Nora rimane sola nella casa della signora.
La ragazza apprende dalla cameriera dell'appartamento, ora al suo servizio, che la sorella della signora Laura era stata uccisa dieci anni prima nello stesso punto e con modalità simili all'omicidio a cui lei aveva involontariamente assistito. Interessata a risolvere i problemi anche psichici che questi fatti le suscitano Nora, accesa lettrice di libri gialli, decide di interessarsi più a fondo alla soluzione del caso e, aiutata un po' anche dalla fortuna, contribuisce a dimostrare la presenza in zona di un vero e proprio serial killer che ha la mania di scegliere le sue vittime per le iniziali del loro cognome, in ordine alfabetico. Gli omicidi arrivano in sequenza fino alla lettera C, la prossima vittima potrebbe essere Nora Davis, proprio per il cognome Davis che inizia con la D. Ma Nora non si arrende e minaccia con le sue indagini acute e molto circostanziate la libertà dell'assassino.

Numerose in questo film le scene di grande valore visivo-suggestivo. Una di queste riguarda la scena della morte dell'anziana Ethel nel suo letto. La donna muore per un probabile attacco cardiaco, la sequenza è straordinaria per costruzione dello scenario e impegno fotografico nel gioco di luci-ombra finalizzato ad ottenere un effetto di turbamento forte, una sorte di panico rafforzato dalla suggestione.
Nella stanza mortuaria il temporale fa mancare la luce, il volto dell'anziana deceduta è illuminato solo dai lampi del tuono. Appena Ethel muore il gatto inarca la schiena emettendo un lamento sordo e disperato, dopodiché la telecamera inquadra una parte del letto che sta muovendosi stranamente, facendo sbarrare gli occhi a Nora, è il momento in cui l'occhio della cinepresa scende per far vedere come il movimento del letto sia dovuto agli artigli delle zampe del gatto che cerca, aggrappandosi alle coperte del letto, di scuotere l'immobilismo mortale della sua padrona.

Questo film di Mario Bava per alcuni critici di fama rappresenta la nascita, il prototipo del giallo-thriller all'Italiana. Indubbiamente ciò, almeno per certi aspetti, è vero, difficile però stabilire con esattezza quanto questo film funzioni come prototipicità rispetto alle opere successive, infatti per le caratteristiche storiche del cinema italiano, insuperabile per invenzioni e creatività, per lo meno fino agli inizi degli anni '90, quasi tutti i film da esso prodotti, anche quelli con qualche caratteristica seriale, rimanevano in ogni caso ricchi di spunti originali finendo per mantenere, comunque, una struttura visiva che le garantiva la sigla di film d'autore, una firma conquistata di volta in volta senza neanche eccessiva fatica, sul campo del set, grazie a una fertile e spesso insuperabile immaginazione dei registi.
In quel magma aureo di qualità storica notevole, ogni autore nuovo pescava qualcosa in vecchi film omaggiando gli autori ma sempre con la preoccupazione e il piacere di conseguire risultati visivi e di insieme di una certa specificità espressiva, in grado di suscitare, senza eccezione, nuove emozioni e coinvolgenti analisi critiche sul sociale e la cultura dell'epoca.

Con "La ragazza che sapeva troppo", film del 1963, Mario Bava costruisce un giallo in bianco e nero dominato sullo sfondo dal contrasto amore-odio, dal suo coinvolgimento psichico e metapsichico, cioè inconscio, che nel mentre motiva fortemente lo spettatore nello steso tempo lo rende abitudinario ai possibili e già noti sbocchi, quindi con delle probabilità di essere tradito nelle aspettative più emozionanti del finale della pellicola.
Ma se il film, come questo, è ben sostenuto dalla paura e dai dettagli-gioco ben calcolati del linguaggio visivo articolati esteticamente come una forma di scrittura accostabile a quella della letteratura, perciò mai banale né piatta, con invenzioni minute, allora lo spettatore viene in ogni caso appagato dalla narrazione, anche quello più esigente, di solito amante della fotografia filmica come era lo spettatore un po' cinefilo agli inizi degli anni '60.

In questo film l'amore e l'odio sono rappresentati da coppie di personaggi diversi che si muovono paralleli, con storie diverse che non comunicano se non in un preciso momento, impattandosi drammaticamente ma non per sancire la supremazia di uno stato psichico rispetto all'altro bensì per sottolineare la questione più esistenziale dei due aspetti che solo provvisoriamente sono caratterizzati dal fatto che uno dei due può dominare sull'altro.
Non a caso Nora a un certo punto pensa che la sua storia possa non essere vera, frutto di una sigaretta alla marijuana fumata per caso. E' un particolare questo che rilancia la questione dell'amore e dell'odio su un piano immaginifico più elevato, che sembra non avere fine nella storia più esistenziale e filosofica dell'uomo.

Mario Bava sembra volerci comunicare che su queste due importanti questioni possiamo solo fantasticare soluzioni o vagheggiare attraverso il film identificazioni passionali e spettacolari, ma tutto questo ha però la sua importanza pratica. Come dire che è vero che siamo fragili rispetto alla forza oggettiva di queste due emozioni, in loro balia, ma possiamo cercarne il substrato più prossimo, ad esempio con la psicanalisi passando, perché no, attraverso le tematiche suggerite dal film, e sperare di illuminarne i diversi meccanismi psichici situati in profondità: cosa che favorirebbe l'insorgenza di effetti di padronanza dell'Io sulle pulsioni.
Mario Bava suggerisce un gioco per lo spettatore dove i termini amore-odio, vita-morte, volgarità-sublimazione, rozzezza-raffinatezza, rimangono sempre in bilico, mettendo a nudo le contraddizioni inconsce del pubblico che va al cinema nella vana speranza di placare l'inquietudine suscitata da un desiderio schizofrenico, oscuro, che vorrebbe l'amore, la sublimazione, la raffinatezza, ma senza il loro contrario ancora implacabilmente attivo nell'inconscio.

Il cinema di Bava può donare una momentanea pace al desiderio scisso facendo vivere allo spettatore una esperienza di pulsioni in sequenza calcolata che raggiungono nel suo immaginario gli oggetti causa di desiderio più riposti portandoli alla luce e rendendoli degni di attenzione almeno finché la realtà più prosaica non illumina con la sua pallida luce la via di casa.

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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 05/03/2012 15.13.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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