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Tutti i post di K.S.T.D.E.D.

Restituiamo agli zombie il loro ruolo

Pubblicato il 07/11/2012 08:39:05 da K.S.T.D.E.D.


E poi così, di colpo, dopo 2 stagioni intere, o quasi, una serie che ha mostrato fin a quel momento limiti evidenti e debolezze di vario tipo, generando nello spettatore nient'altro che noia, irritazioni finanche cutanee e rabbia per l'enorme occasione sprecata, dimostra che in realtà non è che non fosse in grado di rendersi valida, semplicemente, forse, non le andava. Ho sempre criticato The Walking Dead con molta convinzione. E con la seconda stagione, poi, ho rincarato la dose ogni volta che me n'è capitata l'occasione. Era infatti diventata una sorta di Beautiful in un mondo zombiano senza zombie. Quest'ultimi erano quasi del tutto spariti e della trama non restavano che le dinamiche interpersonali tra caratteri di dubbio interesse, delineate attraverso dialoghi quanto meno deboli. Sono arrivato ad ipotizzare che lo scopo primo dei creatori fosse invero quello di metter su una critica al mondo odierno tratteggiando gli umani come i veri zombie, e gli zombie come la giusta cura, come coloro che avrebbero risollevato le sorti del mondo a forza di morsi. Si sarebbe spiegato così il perché della ormai quasi totale assenza di uccisioni violente di walkers e il perché della gestione così urticante dei personaggi.
Non abbandono mai una serie che ho cominciato o di cui ho visto più di qualche puntata. Deve sfinirmi sul serio perché io lo faccia. “The Walking Dead” è riuscita nell'impresa. A quattro puntate dalla fine della seconda ho lasciato, non ce la facevo più. Volevo mordere Convulsion-Shane, l'uomo che fa dieci scatti con il capo nel dire una sola frase. Di due parole. Volevo uccidere Rick e le sue pippe un tanto al chilo, la sua mancanza di carattere. Volevo picchiare sua moglie, per evitare di far nascere il bambino che portava in grembo in quel mondo di zombie vivi. Volevo prendere a pedate la testa del vecchio, perché parlava troppo, e quella di Hershel, perché semplicemente era troppo stupido per non morire. Davvero, ero arrivato al limite. Questo mesi addietro. Poi un paio di giorni fa decido di riprendere in mano le ultime 4 puntate della stagione, anche in vista dell'inizio della terza. Son sincero, lo avevo fatto con l'unica intenzione di venire qui a sfogarmi, scrivendone di ogni, e per riderci poi su, insieme. Ed è successo l'impossibile. Gli ultimi episodi mi son piaciuti; intendiamoci, qualche cazzata qua e là c'è sempre, ché altrimenti non sarebbe TWD, ma mi son piaciuti.
In appena 120 minuti la serie dimostra, come scrivevo inizialmente, che in realtà non era incapacità la sua, ma pigrizia o qualcosa di simile. Dimostra, in appena 120 minuti, che le posizioni dei vari personaggi, i loro caratteri non erano poco interessanti o poco credibili, né poco condivisibili e realistici, ma solo sviluppati male, senza la giusta introspezione. Il loro fascino potenziale cadeva sempre più rovinosamente sotto i colpi insistenti di dialoghi banali e di sequenze tutt'altro che efficaci. Ed è così che Rick inizia a tirar fuori un po' di carattere tra la fine della seconda stagione e l'inizio della terza; che il vecchio affianca un po' di pathos (trasmettendo di conseguenza una certa empatia) alle sue solite menate, che diventano pertanto meno menate e più riflessioni circostanziate e funzionali al racconto; che la cartolina un po' "Beautiful" inizia a strapparsi e il confine buoni/cattivi inizia a scemare; che Hershel tira fuori un po' di palle e comincia ad uccidere zombie con frasi ignoranti ma molto fighe tipo “Venite qui!!” manco fosse Rambo; che Carl inizia a smettere di comportarsi come un adulto e comincia finalmente a fare stronzate da bambino che più semplicemente si crede un adulto; che Shane, addirittura, diviene miracolosamente un personaggio di spessore. Dopo essere stato irritante nella sua pochezza per svariate puntate, fa un discreto salto di qualità con la fine della puntata 2x10: neanche 30 secondi, nessun dialogo, solo una serie di ideali campi-controcampi tra Shane e il se stesso riflesso in uno zombie solitario che vaga con un andamento che quasi sembra una ballata triste; il tutto accompagnato dall'ottima “Civilian” degli Wye Oak. La scena è inaspettatamente potente ed è il simbolo della differenza evidente di qualità tra la serie come la conoscevamo e gli ultimi episodi. “E ci voleva tanto?”, vien da chiedersi.



E così la gente comincia a morire seriamente, nel senso che le morti si sentono, perché i personaggi generano ora un minimo di empatia in più. Gli zombie tornano sullo schermo, tornano a mangiare gente, tornano ad essere il nemico anche per lo spettatore. Si accennava in precedenza che non si sta scrivendo affatto della ripresa del secolo, ma è giusto sottolinearla comunque, così come si sottolineano i limiti quando ci sono. La terza stagione è cominciata da poco e sembra avere anch'essa il suo ritmo, sembra essere discretamente godibile. Magari è stato un sussulto lungo qualche puntata, magari no. Speriamo di no.

Torna Supernatural. Lo fa sempre.

Pubblicato il 24/10/2012 08:34:03 da K.S.T.D.E.D.


Un angelo in crisi esistenziale da senso di colpa e i leggendari Leviatani in giro per gli Stati Uniti con lo scopo di trasformare gli statunitensi in cibi succulenti, perché, cito testualmente, “they're fat”. Uno si potrebbe chiedere, tra le altre cose, da dove siano usciti; ma dal Purgatorio, è chiaro. Il Purgatorio, infatti, non solo esiste, ma in determinate circostanze puoi pure entrarci e visitarlo, anche se per farlo devi saper staccare teste e sbudellare gente con coltellacci mica da ridere. Del resto, se nelle precedenti stagioni si era fatta una capatina all'Inferno, e pure una passeggiata in Paradiso, Il Purgatorio non poteva essere off-limits. E infatti non lo è. E' grigio, nel caso ve lo steste chiedendo, tutto grigio. E al suo interno si fa solo a botte.
E quando si combatte, nella vita, non è come nel bagno turco de “La promessa dell'assassino” di Cronenberg, no. Al contrario, è tutto molto più figo. Hai una colonna sonora che ti parte in automatico quando stai per andare a spaccare il culo al cattivo di turno. E non una qualsiasi, una di tutto rispetto. Se per esempio stai per buttarti con una certa cazzutaggine nella fossa dei leoni, “Born to be Wild” degli Steppenwolf viene sparata a tutto volume da casse invisibili ma potentissime piazzate qua e là vicino al luogo dello scontro, e tu ti gasi tantissimo. E vinci. E non è vero che immortale significa che qualcuno o qualcosa non può morire, ma solo che devi ancora scoprire come si fa, magari semplicemente perché non ti è ancora capitato tra le mani Il Verbo di Dio che ti spiega come fare. Perché esiste pure quello, insieme ad una marea di altre cose.
Quella che ti propinano in TV, come quella che vivi tutti i giorni, non è la vita reale; quando muori, esempio come un altro, non è vero che muori, finisci davvero in Paradiso (o altrove a seconda della tua condotta in vita). Non è un'invenzione religiosa; tutti quei sermoni ascoltati in chiesa non sono falsi. O perlomeno non totalmente. Si, perché “Supernatural” ci insegna che anche il Paradiso esiste ma che al suo interno non è poi tutto rosa e fiori, ci sono fazioni di angeli che se le menano di santa ragione. E però è emozionante, no? Se raccontassero tutta la verità io in chiesa infatti ci andrei volentieri. Comunque, dicevo, non muori veramente. Non solo nel senso che vai da qualche altra parte, ma proprio nel senso che se sei abbastanza in gamba dal Paradiso (o Inferno o Purgatorio) puoi uscire e tornare alla tua vita di tutti i giorni, beffando la Morte. Bisogna del resto considerare che la Morte, ci insegna sempre "Supernatural", non è solo un dato di fatto, la Morte è un essere pensante, e come tutti gli esseri pensanti può sbagliare. Se vi interessa, c'ha una Cadillac bianca la Morte, se ne va in giro con quella. Quindi se la vedete sappiate che potreste schiattare da un momento all'altro (vabbè che poi potete tornare...). Ah, altro indizio, quando cammina la Morte va a ralenti, e non perché la rende figa sullo schermo, è proprio perché va a ralenti. Altro mito da sfatare, quest'ultimo: quella del ralenti non è una tecnica da post-produzione, è una capacità che puoi usare quando diventi abbastanza figo, per l'appunto. E immagina che spettacolo se nel mentre ti capita tra le mani il martello di Thor, com'è successo a Sam. Eh, perché esistono anche tutti gli altri dei, ovviamente. Non è che essendoci i principali elementi cristiani allora esiste solo Dio. Nella prossima stagione uno tra Sam e Dean potrebbe finire nel Valhalla, e lì sì che di canzoni rockettare ne partirebbero in quantità industriali. Tipo “Locomotive Breath”, che accompagna il riepilogo ad inizio ottava stagione. Già, ben otto stagioni. E potrebbero essercene altre otto, non preoccupandosi “Supernatural” di qualsivoglia credibilità. L'importante è che si vada avanti tra esagerazioni sempre maggiori, coscienza della propria appartenenza all'intrattenimento più privo di impegno di sempre e fantastiche ambientazioni canadesi. Guardatela, vi aprirà gli occhi su come funziona il mondo, non sarà un libro di fisica a farlo.

Gente (che torna ad essere) interessante

Pubblicato il 27/09/2012 08:45:20 da K.S.T.D.E.D.


Leggere il nome di J.J. Abrams affianco ad un prodotto televisivo, ad oggi, scatena necessariamente una crisi di panico. Il fu grande (per una serie di coincidenze) JJ, infatti, dopo essersi proposto per il ruolo di Re Mida e averlo quasi ottenuto, non ha più potuto nascondere ulteriormente i suoi limiti e ha mostrato il volto meno affascinante della sua creatività. Dalla terza stagione di “Lost ” in poi, al nuovo prodotto presentato in pompa magna, “Fringe”, fino al più recente “Alcatraz”, che incredibilmente annoia già nel corso della prima puntata e che non riesce infatti a riconfermarsi nemmeno per una seconda stagione. Quando, pertanto, viene annunciato “Person of Interest”, nuovo prodotto con il suo nome tra gli ideatori, lo sconforto è grande e le difese vengono potenziate fino al loro livello più alto. E stando ai primissimi minuti sembra che l'atteggiamento sia pienamente giustificato, salvo scoprire più avanti che forse Jonathan Nolan (co-sceneggiatore della serie) ha capito come imbrigliare la creatività di JJ al punto di evitarne quel tipico sfarfallamento che fino a prima di “POI” rovinava quanto di buono partoriva inizialmente. Sembra, ad onor del vero, riuscirci davvero bene. Sì, perché i presupposti per una sciocchezza caciarona alla Abrams c'erano tutti – il potere occulto, LA macchina, gente che sa, Ben Linus – e la struttura potenzialmente molto pericolosa degli episodi autoconclusivi non faceva sperare in nulla di buono, ma solo in un'infinità di puntate strutturate con colpi di scena continui e improbabili. E invece no, fortunatamente accade l'esatto contrario. Tutto appare curato nel dettaglio. Ancor prima che nella resa tecnica e scenica, nella sceneggiatura. Nelle prime battute si ha sempre infatti la sensazione che il colpo di scena da serie b possa sbucare da un momento all'altro con la faccia di JJ che ti ischerza dicendoti che sei un deficiente e che ci sei cascato di nuovo, ciononostante non arriva mai, o perlomeno non in maniera eccessiva, al massimo con il giusto compromesso tra credibilità e spettacolo. Dopo un certo numero di puntate, anzi, diviene chiaro che “POI” sa perfettamente come restare sui binari della qualità senza deragliare verso quei luoghi di villeggiatura in cui Bishop Jr. beve cocktail con simpatici ombrellini tutto il giorno, Hauser prende il sole ogni mattina sul lettino e Jacob fuma continuamente sigari dal fumo nero, respirandoli, perché è notoriamente scemo. Questa volta si preferisce fare sul serio e i risultati sono lampanti. Anche dal punto di vista scenico, si scriveva. La fotografia, mai troppo accesa e spesso livida ricrea una sorta di vena malinconica che nei flashback svela tutta la sua potenza, conferendo di riflesso anche al presente narrato un animo del tutto simile; insieme ad una colonna sonora eufemisticamente indovinata che, un esempio su tutti, rende con “Lonely soul” degli Unkle (feat. Richard Ashcroft) il finale della ventesima puntata di questa prima stagione davvero notevole.
E degli attori vogliamo parlarne? Sì, vogliamo farlo. Perché se Emerson in prodotti televisivi si era già visto e aveva dimostrato di sapere come si interpreta un personaggio, Caviezel si presenta semplicemente smettendo di essere Caviezel e diventando John Reese. La sua prova è perfetta, non ci sono “ma” che tengano. Fa del magnetismo la caratteristica principale del suo personaggio ed è impossibile non farselo piacere; se si ha qualche dubbio qua e là, lui entra in scena da non si sa dove con una frase (ancor prima di comparire fisicamente) tipo “your coffee is gettin' cold, detective”, con quel suo tono quanto meno basso e quel timbro ormai riconoscibilissimo, e lo spazza via, facendo tornare lo spettatore ad amarlo. Nelle prime battute sembra invero un personaggio un po' troppo caricato, eccessivamente gigione, poi però ci si rende conto che ad essere calibrate sono anche le sue espressioni, quel tanto che basta per mantenerlo figo-ma-non-troppo. Anche i dialoghi, ovvio, giocano in questo senso un ruolo di primo piano, essendo a loro volta assai validi e aderenti ad un ritmo serrato che tiene incollati allo schermo.

Certo, “Lost” ha mostrato le sue abissali lacune solo dopo la terza stagione, e qui siamo appena alla prima, tuttavia è lecito sperare, anche grazie alla puntata conclusiva, che di sorprese ne promette abbastanza. Forse troppo caricato il colpo di scena? Sticazzi, è il finale di stagione.

Commenti: 16, ultimo il 03/10/2012 alle 17.49.23 - Inserisci un commento

"True Blood" e la lotta ai neuroni

Pubblicato il 14/09/2012 09:57:13 da K.S.T.D.E.D.
Nel caso qualcuno ancora non se ne fosse reso conto, è bene specificare che “True Blood” è senza dubbio alcuno una delle migliori serie televisive in circolazione. E' vero, non riesce nel corso delle varie stagioni a mantenere sempre degli standard invidiabili (del resto a riuscirci è stato fino ad ora un numero davvero esiguo di prodotti televisivi), ma è altrettanto vero che con l'ultima stagione andata in onda, la quinta, Alan Ball dimostra che la sua seconda creatura ancora riesce a scalpitare, offrendo un intrattenimento assai difficile da trovare altrove. Sì, perché quello offerto da “True Blood” non è affatto di facile realizzazione come potrebbe sembrare: è quello totalmente privo di fastidiose riflessioni sul senso della vita, privo di particolare spessore, oltreché, come è giusto che sia in questi casi, di un'accurata introspezione. In altri termini, è l'eccesso che non ha bisogno di giustificare se stesso, il ritmo elevato che non ha bisogno di essere preceduto da una struttura narrativa solida: è l'antitesi dell'impegno.

                                                    


Non è di facile realizzazione, si scriveva. Sì, perché in assenza di spessore e ricercatezza il rischio di trasformare il tutto in un baraccone privo di fascino, grondante di cliché, banale e ben poco divertente è appena dietro l'angolo, e forse anche meno lontano. Si rende necessaria una certa maestria per tenere in piedi uno script simile e il creatore di “Six Feet Under”, ergo un uomo ben lungi dall'essere un incapace, a quanto pare ne ha da vendere. Punta sull'ironia e sull'autoironia, rende il prodotto cosciente della sua identità e gli permette di non prendersi mai troppo sul serio. Questo aspetto è assolutamente fondamentale, imprescindibile, senza il quale “True Blood” si sarebbe risolto in un prodotto fotocopia dei vari “Twilight” che infestano schermi cinematografici e televisivi. Ovvio, vi sono altri aspetti che differenziano i due tipi di prodotti, ma l'autoironia è, parere di scrive, la principale discriminate. E la quinta stagione sembra rendersene ulteriormente conto; è il motivo per cui la frase che Eric pronuncia in una delle prime puntate stampa sulle labbra dello spettatore un sorriso che non andrà via fino al termine della stagione: esce dal container nel quale aveva prima discusso e poi fatto sesso sfrenato con sua sorella, si abbottona i pantaloni e rivolgendosi a Bill con visibile autocompiacimento dice “We fight like siblings, but we f**k like champions”. In questa frase c'è più o meno tutto lo spirito di "True Blood", a metà tra ironia, per l'appunto, e fascino “da due lire”. Tutti i caratteri, non a caso, si distinguono con uscite dello stesso tipo, e in questa quinta stagione si pensa bene di aggiungere qualcosa come altri dieci personaggi, tutti quanto meno sopra le righe (i membri dell'Autorità). Inoltre c'è Russel Edginton, vecchia conoscenza, che illumina la scena come pochi; sarebbe sufficiente il suo volto che sbuca di fianco a quello della sposina intenta a cantare per il suo neo-marito a giustificare la messa in onda di questa ennesima stagione.

                                                    


A non venir meno in questo quinto appuntamento è chiaramente anche l'eccesso, che proprio grazie al non prendersi sul serio di cui sopra può non preoccuparsi di porsi limite alcuno, nei dialoghi come negli snodi narrativi. E' così che la serie basata sui romanzi della Harris tira fuori un bimbetto di svariate centinaia di anni che parla di massacri e guerre, un night club gestito da fate, vampiri affetti da fanatismo religioso, maledizioni, mostri di fumo (non quello di “Lost”, fortunatamente) e via discorrendo. Tutti eccessi che se non gestiti con la stessa accortezza avrebbero portato alla noia nel giro di qualche puntata, ma che invece in “True Blood” coinvolgono al punto di divorare puntata dopo puntata in attesa di quello che già si sa essere un finale ancora più eccessivo di quanto visto fino ad allora. Puntualmente, infatti, il finale si rivelerà tale, forse anche più di quanto ci si aspettasse.

E poi di colpo la quinta stagione riesce anche ad emozionare. Peraltro grazie a due dei personaggi più idioti dell'intera serie. La scena Di Hoyt e Jason con Jess, nel bar, è insospettabilmente potente e conferisce una serietà al tutto che chiaramente svanirà in men che non si dica, ma che restituisce comunque una ulteriore piacevole sensazione, seppur del tutto distante dall'animo "cazzeggione" del prodotto. Scena, oltretutto, nella quale vengono fuori doti attoriali di tutto rispetto, che invero, forse proprio per l'assenza di scene particolarmente profonde, non viene mai fuori con tale forza. Tranne nel caso, è doveroso sottolinearlo, di attori come Denis O'Hare, magnificamente sopra le righe nell'interpretare Russel Edginton: quel suo “I'd love to come to dinner” contornato dall'espressione riportata nell'immagine che segue fa bene all'anima.

                                                    


Oltre all'anima a trarre giovamento da questi altri 12 episodi è ovviamente anche l'organo cerebrale, che può riposarsi abbandonandosi all'oblio e godendo di una leggerezza che riuscirebbe ad anestetizzare anche i neuroni del più accanito pensatore. Neuroni che si risveglierebbero, peraltro, solo per contare i giorni che li separano dai prossimi 12 episodi, grazie al finale di cui si scriveva, capace in tre secondi di spalancare le porte ad uno script potenzialmente tanto trash quanto adrenalinico.


(Il pezzo è presente anche sul blog dell'autore: http://houndolcettoentra.blogspot.it/)

Commenti: 5, ultimo il 07/10/2012 alle 11.38.54 - Inserisci un commento

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