Geppetto, un vecchio intagliatore, riceve un pezzo di legno perfetto per il suo prossimo progetto: un burattino. Una volta terminata l'opera, accade qualcosa di magico: il burattino prende vita e inizia a parlare, camminare, correre e mangiare, come qualsiasi bambino. Geppetto lo chiama Pinocchio e lo alleva come un figlio. Per Pinocchio, però, non è facile essere un bravo bambino: lasciandosi portare facilmente sulla cattiva strada, capitombola da una disavventura all'altra in un mondo popolato di fantasiose creature. La sua più cara amica, la Fata Turchina, cercherà di fargli capire come il suo sogno di divenire un bambino vero non potrà mai avverarsi fino a quando non cambierà modo di vivere.
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Certo, su Pinocchio c'è ben poco di nuovo da scrivere, proiettare o rappresentare. Eppure io all'edizione che curai qualche anno fa per la Kollesis Editrice apposi un trafiletto finale sulle versioni latine di Enrico Maffacini e Ugo Enrico Paoli, rispettivamente del 1950 e 1962, in modo da corredare il testo di un elemento di novità rispetto all'intramontabile capolavoro del Collodi. Anche l'artista Lilia Bevilacqua mi fece il dono dei suoi tratti e dei suoi colori, per impreziosire ancor più quella perlina colorata. Questo film, invece, a parte i ruoli azzeccati dei personaggi, in primis quelli dello stesso Benigni (Geppetto), Proietti (uno straordinario Mangiafoco) e Ceccherini (Volpe turpe e ignominiosa), resta fisso sui binari del classico, con il serio rischio di un incedere sbiadito e monocorde, anche in nome di un forte rispetto dell'originale. Restano tuttavia un pregio indiscutibile i toni romantici con cui Garrone ha saputo offrire la sua policromia, diffusa e soffusa, tanto nei paesaggi quanto nei personaggi.