Recensione dillinger e' morto regia di Marco Ferreri Italia 1969
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Recensione dillinger e' morto (1969)

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locandina del film DILLINGER E' MORTO

Immagine tratta dal film DILLINGER E' MORTO

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Un ingegnere torna a casa dal lavoro. È una serata come tante altre. In casa c'è solo la moglie a letto che gli chiede dei sonniferi. La governante entrerà più tardi in casa, per poi rinchiudersi nella sua stanza, ma sia lei che la moglie sonoi raticamente assenti. L'ingegnere inizierà a prepararsi la cena, rifiutando quello che era già pronto. Nella ricerca degli ingredienti troverà una vecchia pistola. La pulirà, disinfetterà portandola di nuovo ai vigori di un tempo. Poi salirà dalla moglie e la ucciderà nel sonno. Il finale sarà devastante. Si imbarcherà su uno yacht alla volta di Tahiti, con scenario simile ad un quadro di Monet.

"Dillinger è morto" è il film più minimalista di Ferreri: sorprendente è la capacità di sottrarre struttura al racconto, svuotandolo di ogni orpello superfluo; il racconto di un uomo inserito perfettamente nella società industriale, con una bella carriera, con una bella moglie, una bella casa. Eppure c'è qualcosa che non va, che stona con un quadro tutt'altro che perfetto, un'asincronia costante per tutto il film; lo spettatore percepisce questa angoscia sottostante, ma sostanzialmente non riesce a spiegarne la provenienza.
Incredibile contrasto fra una vita moderna benestante ed il malessere primordiale di una cultura, e di una rivoluzione culturale (il '68) che forse ha liberato grandi idealismi ma che di certo ha liberato anche demoni interni, lasciando all'uomo l'incapacità di rispondere, o forse solo il tempo per poterlo fare, a quesiti mai posti prima, che si affollano in un universo di significati, più grandi dell'uomo stesso.

Il senso della vita. Forse è tutto lì. Un film epico, ma non nel senso classico, dei costumi, non nella lunghezza, non nelle scenografie, ma solo nel suo contenuto e significato più intimo. Girato tutto in un appartamento, Ferreri supera la barriera del suono, facendo urlare il suo film migliore come il protagonista di un famoso quadro di Munch.
Ferreri mostra la lucidità di un folle in mezzo ad una cecità di esseri normali. Nel film di Milos Forman "Qualcuno volò sul nido del cuculo" si legge un aforisma che ben rispecchia questo pensiero, che recita: "un normale non è altro che un pazzo che si nasconde".

La solita vita normale, fatta di quotidianità e di linearità che però crea dissonanza con la continua ricerca di senso dell'uomo moderno. Nel periodo di grandi rivoluzioni culturali e ideologiche, Ferreri invece sceglie di andare controcorrente, con il solito fare autodistruttivo e pessimista, sceglie di annullare ogni cosa per poi ricominciare da capo. Contro tutti e tutto Ferreri rema contro un cinema che stava cominciando a rappresentare il cinema rivoluzionario di quell'epoca, portando rose, fiori e musica dappertutto, con colori vivaci, segno di una libertà finalmente raggiunta; invece Ferreri preferisce dipingere un quadro monocromatico, senza suono apparente, con fiori appassiti, e con una libertà che rende prigionieri. Ma forse è proprio questo che il film mette in risalto. E' la realtà di un borghese perfettamente omologato da una società del benessere, ma fondamentalmente solo, e senza un briciolo di coscienza etica. La parte centrale del film lo vede immerso in azioni autistiche e regressive, come vedere i film della vacanze, forse per trovare se stesso rivedendosi in un filmino in cui semplicemente riconoscersi, e trovare il bandolo della matassa. Altra azione è quella di flirtare con la governante che all'inizio sembra vacillare ma che poi lascia che la cosa smorzi così come è cominciata; finita questa breve relazione umana, torna ad immergersi negli scaffali, cercando non si sa bene cosa.

Guardando il film lo spettatore percepisce la folle normalità di quelle azioni, svolte dal protagonista con assoluta leggerezza, che per circa un'ora attanaglia il pubblico, lo costringe a seguire delle mollichine per tutto il film, costringendolo a fare da guardone, verso un finale insospettabile, ma di cui lo spettatore guidato dalla sua sensibilità percepisce il rischio. Il rischio di uccidere la moglie, unico gesto "insano" che rappresenta l'apice dell'assenza di senso e del film stesso. Lì lo spettatore non può far altro che capire che ciò che aveva percepito ha preso improvvisamente forma, nella sua massima espressione, in quel semplice gesto. Sì, poter uccidere la propria moglie come bere un bicchiere d'acqua, senza nessuna emozione, senza risentimento, senza alcun istinto primordiale, di alcun genere.

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Recensione a cura di micheletraversa - aggiornata al 26/09/2008

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