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Tutti i post di K.S.T.D.E.D.

Giovani (de)menti allo sbaraglio

Pubblicato il 05/02/2013 17:42:03 da K.S.T.D.E.D.


L'utilità di un blog è direttamente proporzionale all'assenza di regole nella pubblicazione di pezzi al suo interno. Necessita, è ovvio, di un indirizzo che lo inquadri e gli dia un'identità, ma ciò non va tradotto nel fossilizzarsi in maniera sistematica su forma e temi. Nello specifico, il blog di Filmscoop affronta tematiche correlate a cinema e tv, ma ciò non preclude affatto la possibilità di arricchirlo con altre forme creative indirizzate anch'esse al racconto di una storia, come può essere una narrazione a capitoli, scritta e pensata per adattarsi al calendario, per l'appunto, delle pubblicazioni.

È proprio di una serie a capitoli che si sta parlando. Scritta da Andrea Mezzetti (a.k.a. Jellybelly), avrà come protagonista il detective Samuele Spada - alcuni ricorderanno il fratello più grande aggirarsi per le pagine di qualche libro di Hammett - ed ogni settimana sarà possibile leggere un nuovo capitolo delle sue avventure in giro per la metropoli, tra segretarie quanto meno curiose e casi da risolvere.
Domani il primo appuntamento con Samuele Spada, che siamo sicuri non vi deluderà.

Ci auguriamo che sia, inoltre, una sorta di incoraggiamento per coloro i quali vorrebbero seguire l'esempio del giovane autore qui sopra, dandoci la possibilità di pubblicare loro creazioni, siano esse in forma di brevi racconti, di narrazioni a capitoli o di altre forme che si confacciano alle necessità e alle possibilità del blog. Confluiranno tutte nella nuova nuovissima sezione "Giovani (de)menti allo sbaraglio".

Buona lettura.

Commenti: 1, ultimo il 05/02/2013 alle 17.46.04 - Inserisci un commento

HBO does it better...

Pubblicato il 04/02/2013 10:42:06 da K.S.T.D.E.D.


"Banshee", secondo la mitologia irlandese e scozzese, è uno spirito femminile che si palesa agli occhi di colui/colei che da essa viene toccato. I suoi occhi sono sempre arrossati dal pianto, si dice, e la sua apparizione è accompagnata da urla e lamenti. La persona che è stata toccata, infatti, è destinata a morire di lì a breve.
"Banshee", è anche il titolo della nuova serie HBO. "Banshee", nello specifico, è il nome della cittadina che ospita un intreccio invero molto adatto ad una scelta simile. E' la storia di uno dei migliori ladri in circolazione, Lucas Hood, che dopo essere stato in galera per 15 anni, decide di sistemarsi nella cittadina di cui sopra, spacciandosi per il nuovo sceriffo. La cittadina, ovvio, non è propriamente pulita, ed è anzi governata ufficiosamente da Kai Proctor, gangster psicotico non abituato a non avere qualcosa sotto controllo. Se si considera, poi, che il passato di Hood non si è certo dimenticato di lui, si capisce bene che il nome dato e alla serie e alla cittadina sia quanto meno indicato. Ed effettivamente dopo appena qualche puntata, ma diciamo anche dopo i primi minuti della prima, se ne ha chiara conferma.

Il pilota si apre con un brano che definire sporco sarebbe un eufemismo. “Fifth of Whiskey” di Verse and Bishop traccia fin da subito le linee guida di un'atmosfera assai rarefatta, tratto principale della serie. Un'atmosfera, per certi versi, anche esasperata, così come alcune scelte di sceneggiatura, che potrebbero in verità far storcere il naso. Un eccesso che però, parere di scrive, può farsi rientrare tranquillamente in quell'aria quasi fumettosa, come suggerisce anche la locandina, capace di imporsi fin dall'inizio. Spesso, infatti, la serie sembra spingere verso espressioni che potrebbero tranquillamente definirsi pulp, con quel suo non evitare ma anzi cercare una violenza anche spettacolare (nel senso proprio del termine), quel non disdegnare affatto l'aspetto sessuale, non centellinandone assolutamente la presenza, e con quell'atteggiamento generale chiaramente autocompiaciuto. Non è un caso che l'intreccio sia popolato di hacker drag-queen a cui sembrerebbe il caso di non dare troppe rogne, di gangster ben al di là di quella che si definirebbe sanità mentale, di scopate occasionali che non ci si preoccupa troppo di non far sembrare messe lì giusto perché in quel momento un paio di tette sballottate qua e là ci stavano bene (con il montaggio che sembra preoccuparsene anche meno), di un protagonista che non sembra farsi troppi problemi a rispondere alla violenza con un livello di violenza ancora maggiore. La terza puntata, a tal proposito, riserva nella parte finale parentesi meravigliose, che scoprono definitivamente il volto del prodotto e dichiarano senza troppe storie che quanto visto fino a quel momento non era solo un modo per aprire col botto ma il preludio, al contrario, alla reale violenza che sarebbe venuta (e che verrà, si spera) in seguito.

Il ritmo, lo si intuisce facilmente, è quanto meno elevato. Non che non ci si preoccupi di approfondire in maniera particolare i personaggi, è solo che l'introspezione è misurata al fine di non intralciare mai troppo l'aspetto più pulp del racconto. Non sia mai che qualche discorso di troppo sull'aspetto umano dei personaggi precluda allo spettatore la possibilità di vedere discrete quantità di sangue e cazzotti. Non sarebbe carino, in effetti. E se Alan Ball non l'ha fatto in “True Blood”, giustamente, non v'è motivo per cui dovrebbe proporlo al contrario in questo caso. Sì, perché Alan Ball è tra i produttori esecutivi della serie, creata invece da due volti abbastanza nuovi nell'ambiente, Jonathan Tropper e David Schickler.
Anche i dialoghi, che potrebbero facilmente scadere in ogni sorta di banalità con un simile soggetto ed un simile sviluppo, tengono bene il passo. Non eccezionali, ma forse neanche necessitano di esserlo, dovendo semplicemente restare fedeli a personaggi che, come si scriveva poc'anzi, non possono vantare chissà quale spessore. L'importante è che non siano un ammasso di frasette idiote anelanti all'essere d'effetto. E fortunatamente non lo sono. Tutt'al più lo sono il giusto.
Quanto appena scritto peraltro, con i dovuti adattamenti, è quanto si potrebbe scrivere delle interpretazioni (grazie a Dio di attori quasi sconosciuti), in particolar modo di quella di Antony Starr, nella parte del protagonista.

Ulteriore prodotto per cervelli spenti, quindi. Ha tutti gli elementi perché continui su livelli assai discreti, benché ne abbia altri, per ora pochi e veniali, come l'inizio del quarto episodio, l'ultimo andato in onda, che laddove dovessero prendere il sopravvento rischierebbero di buttare un po' tutto alle ortiche. E viste le premesse sarebbe davvero un peccato ancor prima che uno spreco, considerato anche il fatto che è già stata ordinata, dopo appena tre episodi, una seconda stagione.



Date un'occhiata al trailer qui sopra, se non altro per ascoltare la fantastica “F.E.A.R.” dei Various Cruelties, e laddove dovesse convincervi, nel guardare le puntate ricordatevi di aspettare la fine dei titoli di coda.

Kurt Sutter e il fascino del tanfo

Pubblicato il 20/12/2012 11:15:42 da K.S.T.D.E.D.


La quinta stagione del secondogenito di Kurt Sutter, creatore di quel capolavoro che è "The Shield", per chi ancora non lo conoscesse, si è da poco conclusa. Le premesse non erano delle migliori, se si considera il finale alquanto debole della quarta, in cui si ha la chiara sensazione che si sia trovato un escomotage di bassa lega per poter portare avanti una storia che sembrava essere giunta al suo climax. Quella sensazione resta in questi ultimi 13 episodi, tuttavia c'è anche dell'altro. C'è che Sutter con la sua solita maestria è riuscito comunque a metter su un'altra parentesi di tutto rispetto, in cui i personaggi evolvono ulteriormente. Ora non starò qui a scrivere di pro e contro, di se e quanto la quinta stagione sia valida, del fatto che siano state ordinate addirittura altre 2 stagioni, ma vorrei più che altro fare un paio di considerazioni su un aspetto che accomuna "The Shield" E "SOA", su un aspetto che si può quindi attribuire in generale allo stile di Kurt Sutter. Mi riferisco, nello specifico, alla capacità di tirar fuori il marcio dai suoi personaggi, o meglio alla capacità di tirarlo fuori dall'inizio ma di farne sentire il tanfo solo più tardi. Nelle varie stagioni di "The Shield" si tifa per Vic, non si discute. E' il protagonista, lo si vuole veder vincere, lo si vuol far sopravvivere, ci si sofferma solo sugli aspetti più umani che lo rendono degno di comprensione, sparsi intelligentemente qua e là all'interno della sceneggiatura. Verso la fine però succede qualcosa, si alza di colpo un'atmosfera maleodorante, Vic resta il bastardo che è, ma sembra quasi che adesso lo spettatore non si limiti più a prenderne atto, ma ad avvertirne il cattivo odore. Ci si rende conto di non parteggiare più per lui, ma di provare per lui la stessa compassione che si prova per un miserabile che si avvicina giustamente alla fossa che si è scavato. Più in generale anche la storia passa dall'essere avvincente e adrenalinica all'assomigliare più ad una tragedia, senza speranza, a tratti opprimente (la scena di Shane,a tal proposito, resta uno dei punti più alti mai raggiunti dal mezzo televisivo). Anche in questo caso lo si sapeva già da prima, ma solo più tardi, quando lo decide Sutter, lo spettatore comincia ad accusare l'aspetto più nero della storia. Questo è l'elemento in assoluto, parere di chi scrive, più riuscito dell'ultima stagione, che è a sua volta, guarda caso, strepitosa.
Nella quarta stagione di "SOA" Sutter fa la stessa cosa. Comincia a tirar giù le maschere, a spogliare i suoi personaggi, a privarli di quel loro apparire, nonostante tutto, ed è il caso di sottolineare “nonostante tutto”, accattivante. Ogni singolo carattere comincia a mostrare i suoi limiti, a far arrivare dall'altra parte una sensazione non più gradevole come prima. Nella quinta stagione Sutter mette in questo senso la quinta, frantuma la superficie sulla quale si muovono i suoi protagonisti, li lascia lì in caduta libera. Anche l'ombra di una qualche salvezza inizia a svanire. E così quell'odore nauseabondo di cui sopra comincia ad avvertirsi chiaramente anche qui, è lo stesso, Sutter sembra adorarlo, e non si può fare a meno di subirne il fascino, perché usato alla perfezione. L'intera stagione è una discesa inesorabile, un crollo continuo di castelli di carta, di volti che non riescono più a guardarsi allo specchio, che si mostrano con una certa difficoltà sapendo che la loro parte più penosa è ormai all'esterno e sotto gli occhi di tutti. Anche gli atteggiamenti in apparenza altruistici non sembrano più tali, sembra che nessuno faccia più niente se non per sé (stupenda la scena di Tig/Jax/Pope nelle ultime puntate). La solitudine la si respira chiaramente, la si respira ovunque, che sia in una stanza vuota o al tavolo circondato dai membri di SAMCRO.
In questo Sutter sembra infallibile. Riesce come pochi a trasformare la consapevolezza in sensazione, riscrivendola e rendendola realmente tale. Arriva un punto durante i suoi racconti in cui sembra si sia riusciti finalmente ad aprire gli occhi e a guardare il vero volto di ciò che si è avuto davanti per varie stagioni, e non più semplicemente a sapere che è lì. Ovviamente, non poteva Sutter perdere l'occasione di chiudere la stagione con un inno a quanto scritto fino a questo momento: si serve di una versione meravigliosa di “Sympathy for the Devil” dei Jane's Addiction, di un testo che più adatto non poteva essere e mette su una scena conclusiva che, come al solito, difficilmente sarebbe migliorabile.

"So if you meet me
Have some courtesy
Have some sympathy, and some taste
Use all your well-learned politesse
Or I'll lay your soul to waste
"

Generalmente guardando storie di questo tipo capita di fantasticare un po'. Anche con SOA. Moto, fughe, andrenalina. Al termine della quinta no, non più. "It ain't fun anymore".

Era difficile riprendere da un finale debole come quello della quarta. Sutter c'è riuscito.

Homeland: come fare le cose per bene

Pubblicato il 18/12/2012 13:45:15 da K.S.T.D.E.D.


Per notizia, “Homeland” è un prodotto televisivo assai riuscito. E merita tutte le mie scuse. Prima che uscisse, infatti, ero convinto sarebbe stato qualcosa di visto e rivisto attraverso il quale far leva sul patriottismo della parte più dormiente del popolo statunitense, e più in generale su coloro che non vogliono cose troppo diverse tra loro quando guardano un film, piuttosto che una serie, piuttosto che qualsiasi altra opera di fantasia. Mi riferisco a coloro che chiedono unicamente il cattivo di turno, l'eroe di turno, svariate soluzioni non troppo credibili e una serie di altri personaggi messi lì tanto per riempire spazi vuoti nell'inquadratura. Insomma, in due numeri, “24”. Se ero così prevenuto, sbagliando, è proprio grazie a quest'ultima serie, amata un po' ovunque ma in realtà pessima. Per niente credibile con i suoi milleduecento colpi di scena a puntata, con un protagonista che da solo sventa praticamente qualsiasi minaccia e che in un solo giorno (24 puntate a stagione, ognuna per ogni ora della giornata) fa quello che farebbero 10 persone in una settimana; con personaggi il cui approfondimento psicologico è perfettamente in linea con la superficie della pianura russa; con uno split-screen che tuttora, a distanza di anni, mi urta cordialmente i nervi; con una marea di altre sciocchezze che non si può star qui ad elencare, perché è di Homeland che si sta scrivendo, quindi torniamo su Homeland. Anche perché, del resto, ne vale assolutamente la pena, essendo l'esatto contrario del prodotto superficialotto di cui sopra. Gideon "Gidi" Raff, creatore della serie, mette in scena un intreccio incredibilmente maturo nonostante il tema ormai fin troppo abusato per racconti di spessore ben più trascurabile: cerca, riuscendoci, di restare sempre sui binari della credibilità, di fare in modo che quanto raccontato possa apparire agli occhi dello spettatore una realtà possibile, facilitando l'immedesimazione dello stesso. Non che rinunci, però, alla spettacolarità, intendiamoci, né ai ritmi più forsennati tipici del thriller, né tanto meno al colpo di scena, usato con maestria e senza cadere nell'eccesso (tranne forse qualcosa, ma al termine di poco conto), pur non sacrificandone l'aspetto più cinematografico. All'intreccio in sé, poi, si affianca ovviamente anche la messa in scena, che non si potrebbe criticare neanche volendo. A partire dalla fotografia, che ricalca perfettamente gli stati d'animo che sfilano sullo schermo, tutti solitari, tormentati e grigi fin quasi al punto di angosciare. Cosa che, peraltro, già fa la sigla d'apertura con quel suo essere un concentrato di fascino e inquietudine.
E' l'introspezione il punto di forza di Homeland. La storia, pur essendo coinvolgente e accattivante, è al suo servizio, mai il contrario. La gamma emozionale dei personaggi è lì sullo schermo, non resta che osservarla e lasciarsi guidare dalla stessa per comprendere i singoli personaggi e provare empatia nei loro confronti. E non solo fotografia e intreccio, anche la regia si adatta per lo più ai tempi richiesti dall'introspezione, tanto che a venirne fuori è un prodotto maledettamente cosciente del suo volto e che infatti non si perde mai per strada. Solido e maturo. Ah, e interpretato meravigliosamente, anche. Chiunque sostenga il contrario farebbe bene a mettersi in un angolo evitando di pronunciarsi su qualsiasi altra questione. Damian Lewis, che già fece una discreta impressione in “The Escapist”, è superbo nella parte di Nicholas Brody. Claire Danes, poi, nel ruolo di Carrie Mathison rischia di far perdere lucidità allo spettatore come accade al suo personaggio, tanto arriva dall'altra parte dello schermo.

A breve terminerà la seconda stagione, che non ha (almeno fino a qualche puntata dalla fine) niente da invidiare alla prima e che anzi tocca picchi davvero notevoli. Credevo potesse essere godibile, ma non così riuscita. Dovreste vederla.

Tra ’86 e ’90, This is England ’88.

Pubblicato il 09/11/2012 08:26:25 da K.S.T.D.E.D.


Nel 2006 Shane Meadows gira quello che insieme a “Dead man's shoes” è il suo film più riuscito. “This is England” è infatti l'espressione più sincera e sentita di una poetica cinematografica che delinea gran parte dei tratti distintivi del nuovo linguaggio filmico britannico, di cui Meadows è uno dei massimi esponenti. Quattro anni più tardi, il regista inglese decide per un'incursione nell'universo televisivo, che fortunatamente sta attirando a sé molti registi fino ad ora “confinati” al grande schermo; le virgolette sono d'obbligo ed è anzi necessario precisare: il pensiero di chi scrive è ben lontano dal considerare il cinema riduttivo o addirittura inferiore allo strumento televisivo; è al tempo stesso, tuttavia, particolarmente propenso ad elogiare le potenzialità insite nei prodotti seriali, ancora troppo etichettati come meno significativi, più semplicistici e non in grado di toccare le stesse vette raggiunte e raggiungibili da una classica pellicola cinematografica. Un'etichetta che definire fuori fuoco sarebbe riduttivo. Di esempi se ne potrebbero fare parecchi, ma non è il caso di andare troppo oltre considerando che proprio Meadows ha confermato appena un anno fa l'erroneità della classificazione di cui si sta scrivendo. Nel 2010, infatti, scrive e dirige per la televisione una miniserie in quattro puntate, riprendendo proprio "This is England", capolavoro che non tutti rischierebbero di rovinare ritoccandolo, peraltro non semplicemente con un classico sequel, ma addirittura optando per un diverso registro linguistico. Lui invece pensa bene di provarci e tira fuori una miniserie che non ha assolutamente nulla da invidiare alla quasi omonima pellicola. Potente quanto quest'ultima, “This is England '86” è senza mezzi termini meravigliosa.

Le basta davvero poco per riportare alla mente e al cuore dello spettatore la parte più emozionale della pellicola; quell'anima viscerale e viva che la rende così riuscita, così credibile e così vera. Un'inquadratura, una frase, un accento, come anche una canzone, una luce o un'espressione; si ritorna all'interno di un'atmosfera, pur essendone usciti ben quattro anni prima, senza sforzo alcuno, anzi meravigliandosi del fatto di esserci riusciti in un lasso di tempo così ristretto: Combo e Shaun in macchina, immersi in quella luce tutta inglese che il cinema di Meadows sembra afferrare con assoluta facilità; appena qualche scambio e “This is England” sembra non essersi mai concluso.
Del resto è quanto accade anche col recente “This is England '88”, altra miniserie in tre puntate andata in onda lo scorso anno in Inghilterra – presentata anche come seconda stagione della miniserie precedente.
Si apre con tre parentesi senza particolari cornici cinematografiche, una per ognuno dei tre personaggi più significativi: Lol, Woods e Shaun (con Smell). Il vocabolario e l'accento sono già sufficienti a riaprire le porte di un'atmosfera assai familiare; immediatamente dopo parte “What Difference Does It Make?” dei The Smiths, sulle parole di Margaret Thatcher che annuncia di avere la cura per quel “British Disease” che aveva messo in ginocchio la Gran Bretagna. È la prima di una veloce sequenza di istantanee che delineano gli anni '80 sulle note di una canzone suonata da un gruppo creatosi e scioltosi proprio in quegli anni. Le porte a questo punto più che aperte sono spalancate, diciamo anche scardinate, e ancora una volta ci si ritrova senza quasi accorgersene proprio lì dove Meadows intende portarci.
Niente di nuovo, comunque. Il regista inglese ci tiene particolarmente ad immergere le sue storie in un contesto socio-temporale riconoscibile al fine di dare spessore e credibilità a quanto raccontato. È uno degli aspetti in assoluto più riusciti di “This is England”. La scelta delle brevi sequenze in successione veloce è infatti quanto mai completa. Si passa dalle manifestazioni alla politica, dalla fame nel mondo alla presa di potere di futuri dittatori, dallo sport alla televisione, dai disastri alla vita quotidiana, dalle stragi all'euforia; non si potrebbe, al termine, restare fuori da quegli anni neanche volendo.


Anni di cambiamenti, quindi, che in gran Bretagna si portavano dietro gli strascichi di una crisi che aveva costretto la gente a scendere in piazza, a ricalcolare il proprio futuro come il proprio benessere. Un disagio che si riflette con forza anche in personaggi che ormai si è imparato a conoscere e che Meadows si preoccupa, come si diceva, di tenere ben incollati al contesto. La sequenza d'apertura è già per quel disagio, inquadrato sul volto di Lol, alle prese con i fantasmi di quanto accaduto al termine di “This Is England '86”. I giorni delle bravate, della vita sregolata, delle risse e delle stronzate sono finiti. Lol si sveglia alle 6.07 perché chiamata dalla figlia, Woods alle 7.30 per andare in ufficio, Shaun altrettanto presto per andare al college. Questa volta la miniserie sembra un racconto di formazione tardiva e resa difficile da un malessere o un'insoddisfazione quanto mai presenti. Il distacco dei tre protagonisti, non a caso, dalla vita in cui li abbiamo conosciuti non è solo emotivo ma anche concreto; non li si vede mai con il resto del gruppo, bensì da soli e diretti verso un cambiamento testardamente voluto ma non sentito (Woody), oppure imposto (Lol) o, ancora, né sentito né cercato ma neanche rifiutato (Shaun).
Il cambio di registro lo si avverte chiaramente. La spensieratezza che nonostante tutto si avvertiva in precedenza, questa volta non la si avverte più. I toni, al contrario, si incupiscono notevolmente, tanto che il grigiore britannico diviene anche più grigio. A smorzarli, solo quell'ironia che fortunatamente non viene mai meno. Meadows vuole descrivere l'incertezza ed il disagio non solo come fantasmi ma come presenze reali ed ingombranti; dà loro il volto di Mike, che pur essendo frutto dell'immaginazione di Lol non va via dall'inquadratura quando Lol esce fuori dalla stessa; la telecamera, anzi, resta ferma su di lui, facendo passare un'inquietudine difficile da ignorare.

È proprio la differenza sostanziale nelle atmosfere e nello spirito a rischiare di provocare nello spettatore un'apparente insoddisfazione. 'Apparente' perché in realtà una volta metabolizzata la serie appare assai coerente nel suo trascinare i protagonisti in un passaggio evolutivo fondamentale, che diviene chiaro in una delle frasi più significative pronunciate da Woody nel finale. Al termine, nel bene o nel male, i caratteri appaiono più consapevoli delle loro scelte, più consapevoli di se stessi; sembrano aver accettato i loro trascorsi ed essersi riappacificati con un presente che non non solo non stavano vivendo, ma che stavano addirittura rifiutando nascosti dietro chissà quali aspettative o delusioni.
Il metabolismo rende inoltre evidente quanto bene si adatti lo stile registico di Meadows al volto in parte nuovo di questo ennesimo capitolo. Il malessere e il senso di incompiutezza vengono descritti in maniera perfetta da quel suo sguardo tipicamente viscerale, diretto e potente; asciutto ma senza intenzione alcuna di rinunciare all'uso sistematico delle musiche come di quella fotografia ricercata ma mai eccessiva.


Del “This is England” che conosciamo a questa miniserie non manca nulla, quindi, se non una durata maggiore. Si ha infatti la sensazione che il tutto duri davvero poco e che con qualche altro episodio il risultato sarebbe stato ancor più convincente e a quel punto inattaccabile. Non è un caso che la risoluzione possa apparire per certi versi sbrigativa o comunque compattata fino a rientrare nel minutaggio, e probabilmente lo è; ciononostante la riuscita dello stesso non viene compromessa in nessun modo, grazie e all'aspetto ironico – affidato ad un personaggio, Woody, meravigliosamente a metà tra il credibile e il farsesco - che pochi sanno mischiare al dramma come sa fare Meadows, e ai sempre ottimi dialoghi e, più in generale, alla gestione registico-narrativa che rende Meadows il cineasta che è.

Tra qualche mese dovrebbero iniziare le riprese di “This is England '90”. Il 2013 ha già un punto a suo favore.

Categorie: Serie TV in uscita, Serie TV registi, Serie TV approfondimenti

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