Recensione the burning plain - il confine della solitudine regia di Guillermo Arriaga USA 2008
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Recensione the burning plain - il confine della solitudine (2008)

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locandina del film THE BURNING PLAIN - IL CONFINE DELLA SOLITUDINE

Immagine tratta dal film THE BURNING PLAIN - IL CONFINE DELLA SOLITUDINE

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Il cinema degli spazi non più sconfinati, ma confinanti, dei destini intrecciati, delle fatalita' incombenti e drammatiche: in questo modo Inarritu - col supporto del fidato (fino a poco tempo fa) sceneggiatore Guillermo Arriaga, ha influenzato una lunga serie di cineasti, anche molto diversi, come Fatih Akim (nel suo film più accessibile ma anche meno sorprendente, "Ai confini del paradiso"), di diverse estrazioni sociali, etniche, geografiche.
I dubbi vanno fugati per sempre: l'alchimia tra Arriaga e Inarritu difficilmente potrà ripresentarsi, vista la "divergenza d'opinioni", se cosi' vogliamo chiamarla, tra il regista e lo sceneggiatore.
Tutto sommato la cosa non sorprende: perché alla fine "The burning plain", esordio alla regia di Arriaga dopo la lunga collaborazione con Inarritu (ma anche altri script, come "Le tre sepulture"), non cambia di una virgola il percorso caratteristico di questo cinema; un cinema che, se poteva avere un senso, anche al di là del fastidioso qualunquismo di "Babel", oggi come oggi mostra tutta la sua inarrivabile inutilità, la perfezione formale e le pretese autoriali celate o esibite davanti ad un mestierante che, in realtà, ammicca spudoratamente allo spettacolo di massa. Qualcuno, molti, la pensano diversamente; buon per loro: il punto è che spremere una reazione dalla storia di queste tre (due + una!?) donne, un qualsiasi coinvolgimento emotivo, è impresa assai ardua, nonostante (è questo il punto) il film faccia di tutto per ricorrere allo stratagemma, non si sa quanto gratuito o sincero, di adescare lo spettatore con uso abbondante di kleenex pre e post visione.

Le donne si chiamano Maryana (la 16enne matricida), Sylvia, Maria, da Portland, e insomma tutti sanno che il marchio di fabbrica di Inarritu ci tiene molto a preservare questa sorta di disordine cabalistico entro i confini territoriali nei quali ambienta le sue vicende.
Non è Inarritu, quello di "The burning plain", ma poco ci manca: resta un film che piacerà in parte alla critica e conquisterà il pubblico, e proprio quel tipo di spettatore che, ingannato dall'apparente profondità dei personaggi, crede di aver assistito alla vera alternativa contro il mainstream corrente del cinema contemporaneo.
Forse allora la vera profondità del film sono le cicatrici di Kim Basinger esibite nel tentativo disperato di ritrovare l'antica sensualità dopo un tumore al seno (immancabile l'effetto tragico della "penna" di Arriaga) o le bruciature di Maryana con il (quasi?) fratellastro come prova di fedeltà rispetto e (magari) amore.

Un camper in fiamme, segno di uno spoiler più o meno volontario, inaugura questa storia di Espiazione made in Usa, epilogando il tutto come se fossimo davvero (e non è il caso di credere al contrario) in un fotoromanzo/telenovela, dove l'alternanza scenica dei volti dei personaggi appartengono alla migliore/peggiore tradizione delle soap televisive (altro che Wim Wenders!).
La storia di due amanti tragicamente "puniti" per il loro reciproco adulterio induce al moralismo, e la regia di Arriaga fa di tutto per incentivarlo e ingigantirlo.
La rimozione dei "sopravvissuti" davanti al peccato carnale che ha reso possibile la fine finto-idilliaca di due famiglie finisce così - e pericolosamente - per plagiare gli spettatori alla ricerca appassionata dello sviluppo della vicenda ma in fondo anche indirettamente interessato al giudizio morale che daranno alla vicenda e ai suoi personaggi: come per il nostro Avati più recente, si finisce quasi per riabilitare il crimine di una figlia (annientata, nuovamente e definitivamente, la figura materna, anche in questo caso): il doppio tradimento, materno e coniugale, finisce per assoggettarsi a una facile, demagogica ed edificante, resurrezione del terreno bruciato - ehm - e l'annientamento fisico ed emotivo della Theron è tale che il regista riesce nella folle impresa di offuscare le sue ben più squallide intenzioni: altro non sono che "marchette" per adescare il plauso del pubblico.

Intendiamoci, la direzione delle attrici è ammirevole, mentre gli uomini del film non fanno testo, non esistono, non hanno alcun ruolo radicale, se non quello di rappresentare (come nel caso del ragazzo) un bisogno enorme di comprendere cio' di cui diventa scomodo parlare.
Il punto è che la mediocrità lussuosa e iperconfenzionata di questo film, tra terreni brulli e supermarket galeotti, non dà alcuna voce all'universo femminile come vorrebbe farci credere: tutto è all'insegna della misoginia imperante, tutto fa pensare che lo sguardo di Arriaga, come quello di Inarritu e del suo cinema, possa fissare un punto di creatività radicale (un non-ritorno) ma senza scomodarsi a "firmare" ed esprimere compiutamente le proprie intenzioni: grazie a Dio i peccatori possono bruciare all'inferno.
Non sarebbe facile proporre tale giudizio biblico anche per i registi?

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 09/10/2008

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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