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Prendete una semplice artista da avanspettacolo polacca nei primi anni cinquanta, un po' svampita e frivola. Mettetela in un contesto come quello carcerario del regime comunista. Questa semplice situazione oggettiva è realmente stridente. Incarcerata senza un motivo plausibile, con accuse campate in aria che deve confessare con le buone o con le cattive, ma con la piena consapevolezza di non aver fatto nulla di male. Difficle confessare un reato che non si è mai compiuto. E' proprio il gioco perverso che si instaura fra prigioniera e carcerieri. Un gioco brutale e violento, quanto sottile e sadico, sulla falsariga del poliziotto buono e quello cattivo. Sulle sue spalle si abbatterà la paranoia di un regime che vede spie dappertutto e che solo sopo la dipartita di Stalin allenterà la pressione. Una donna da sola che avrà come baluardo la difesa della propria dignità. Una chiara metafora di una nazione che ha cambiato solo le connotazioni del proprio regime, da quello nazista a quello comunista. Krystyna Janda, la protagonista, da applausi.