Adattamento del classico di Dickens: l'orfanello Oliver fa amicizia, nelle strade di Londra, con un ladruncolo e da questo viene instradato a far parte della famiglia di ladri addestrati dal perfido Fagin.
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2 ore di film non riescono a riportare sulla pellicola la complessità dell’intreccio del romanzo d’origine, che, essendo stato scritto a puntate, è rigorosamente infarcito di colpi di scena, rivolgimenti, cadute, risalite e di nuove ricadute, per giungere poi all’agnizione finale, rivelatrice della parentela tra Oliver e il signor Brownlow che porrà, con abile manovra letteraria, fine al dramma. La storia del film sembra ricalcare fedelmente soltanto la prima parte del romanzo, tralasciando del tutto l’agnizione conclusiva e le tormentate vicende più strettamente collegate alla famiglia Brownlow e ai personaggi di Rosa e Monks (di cui non viene fatto minimamente cenno). Forse la volontà del regista è stata quella di volersi concentrare sul personaggio più interessante dell’opera, Fagin, l’ebreo ladro che sopravvive di espedienti nei bassifondi londinesi, trovando, nell’arte del furto e nello sfruttamento minorile, un mezzo di sostentamento in una società generatrice di quei “mostri” di cui, poi, essa stessa, prova repellenza e che non esita a condannare, una volta diventati adulti. E se è la società stessa a generare quei mostri che non ammette di riconoscere come figli suoi, sin dall’inizio del film i buoni borghesi dell’associazione parrocchiale non si fanno scrupoli a ricorrere più volte all’immagine della forca di fronte al fragile Oliver, macchiatosi dell’unica colpa di essere orfano e abbandonato. Paradossalmente viene da pensare che i luoghi dove si consuma la maggior violenza siano non soltanto i vicoli della Londra più malfamata, ma i luoghi stessi dove si dovrebbe invece ristabilire una certa giustizia, come l’ospizio parrocchaile o la sala del tribunale. Mentre Dickens si diverte a rappresentare con arguto humor la galleria umana di una classe agiata detentrice del potere, pennellandola con brevi tratti in tutta la sua intima meschinità, ottusità e piccineria, il regista al contrario, sceglie di allontanare ancora di più figure come quella di Bumble o dei giudici, da una parte per rendere l’idea di una giustizia lontana e senza volto, e dall’altra per focalizzarsi meglio sulla figura di Fagin l’ebreo, dal fascino ambiguo e luciferino. Bastano pochi “colpi di pellicola” per mettere in scena l’ottusità dell’assemblea parrocchiale che scambia l’angelica ingenuità del fanciullo Oliver per stupidità e non risparmia di parlare di forca di fronte al ragazzo, come se questo, ai loro occhi, avesse un destino già segnato in partenza. La comunità del potere, sembra così essere essa stessa l’invisibile orchestratrice del futuro di miseria e balordaggine che porterà molti di quei bambini, accolti nelle loro “workhouse”, verso il destino tragico di futuri malfattori, figli di una società che sembra condannarli già a priori. E l’inquietante riferimento alla forca, che aleggia in tutto il libro e nel film, sembra apppunto inverarsi nel tragico finale, dopo essere stata così a lungo invocata con tanta leggerezza dai detentori di quel potere sommario di cui varie volte Oliver è vittima e da cui non potebbe forse mai liberarsi con le sue uniche forze. Sarà solo la “fortuna” di un incontro, di un’agnizione libresca a riscattare con l’inverosimile quello che normalmente nella vera società vittoriana sarebbe stato destinato al fallimento e alla miseria. Oliver può salvarsi grazie ad un deus ex machina, ad una sorta di “mano di Dio” che permetterà al fanciullo quella salvezza che sennò non potrebbe mai compiersi per mano della comune giustizia. E l’autore Dickens (seguito a ruota senza tradimenti da Polanski), interviene a ristabilire un ordine che una società ingiusta non riesce a garantire. Il fatto che Polanski si sia concentrato su Fagin, indiscussa figura principe dal fascino ambiguo, sembra insinuare l’idea che la mancanza di un’intervento da parte del destino romanzesco (come è avvenuto invece per Oliver), possa trasformare teneri bambini in reietti della società, in futuri Fagin, sfruttatori di un’infanzia che ad essi stessi fu un tempo sottratta da quella società che li ha resi tali a causa di tanta indifferenza e incomprensione. Il perpetuamento di giustizia sommaria ha così come risvolto i tanti Bill Sikes, Nancy o Fagin. Se il primo personaggio sembra senza speranze indurito, totalmente incattivito dalla vita, Nancy e Fagin sembrano percorsi talvolta, nella loro capacità di provare ANCORA pietà, da estemporanei fremiti di quello che furono un tempo: bambini. E da lì ecco la rappresentazione di un Fagin paradossalmente più “dignitoso” dei tanti Mr Bumble con le loro mazze e i loro ridicoli tricorni, che il regista non esita a rendere marginali, per dare spazio all’ebreo, alla pietà che esso suscita nel momento in cui vi si può scorgere l’immagine di quel bambino che anche esso fu. Ben Kingsley dà vita alle ambiguità di Fagin, incurvatosi sotto il peso di una vita stentata, dal volto rugoso, sporco, coi denti ingialliti e consunti, apparendo, pur nella sua viscida presenza, immagine portatrice di un dolore di cui si sono ormai perse le antiche origini di probabile ex-vittima, ma di cui ancora si possono scorgere le traccie in quel suo sorriso scivoloso, in quella sua strana “affezione sfruttatrice” verso i suoi ragazzi, capace ancora di una risonanza nel dolore, a diferenza del compagno Sikes vittima ormai oltre che della società anche di se stesso. Il film, unica pecca, non riesce a restituire a pieno l’intensità della scena finale nelle prigioni che nel libro si caricava della tensione del pubblico processo all’ebreo (ma nel film tagliata), e della successiva disperazione solitaria dell’ultima notte di Fagin, che nel romanzo acquistava una sorta di forza visionaria che nel film non riesce a prender forma, stemperata dalla scena del bimbo che cerca di redimere il vecchio con un’ultima preghiera al cielo. Eppure, cinematograficamente, la notte di Fagin me la sarei immaginata più dilatata, surreale, agitata da fantasmi mentali, lo spazio di solitaria resistenza disperata di un vecchio contro un destino metafisico a cui incosciamente si rivolta. Il film segue lo svolgersi della storia con una certa freddezza mentre nel libro la forza del romanzesco riusciva a conferire ritmo, e il fiume di pagine a restituire, al susseguirsi serrato degli eventi, momenti di calma e d’analisi dei personaggi. Il rischio di riportare su pellicola romanzi così densi di eventi rischia sempre di far prevalere lo sforzo della ricostruzione storica e dei fatti sulle sfumature, sulle descrizioni psicologiche ecc. L’intelligenza del regista è stata quella di essersi concentrato solo su una parte della storia e sul rapporto tra società e i suoi frutti, sul rapporto tra potenza e atto, tra un Oliver, bambino di strada salvato da un incontro risolutivo (NON più agnizione nel film) e Fagin, altro “bambino” di strada non redento dalla mano di alcun Dio-autore, vittima e assieme incarnazione di una società fatta di giustizia sbrigativa e istutuzioni dal volto disumano. La pellicola riesce a restituire allo spettatore l’immaginario di una londra industriale, di una città sporca, viziosa, senza dare molto spazio alla dimensione più “borghese” del romanzo, (Bronwlow è appena una comparsa, ed è del tutto assente il personaggio di Rosa) volutamente tralasciata perché inutile all’inquietante rappresentazione di una società, apparentemente perbenista e pulita come quella vittoriana, ma dai risvolti tragici incarnati dalla grande figura dell’ebreo Fagin- Kingsley.