milano odia: la polizia non puo' sparare regia di Umberto Lenzi Italia 1974
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milano odia: la polizia non puo' sparare (1974)

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locandina del film MILANO ODIA: LA POLIZIA NON PUO' SPARARE

Titolo Originale: MILANO ODIA: LA POLIZIA NON PUO' SPARARE

RegiaUmberto Lenzi

InterpretiTomas Milian, Henry Silva, Ray Lovelock, Gino Santercole, Laura Belli

Durata: h 1.36
NazionalitàItalia 1974
Generepoliziesco
Al cinema nel Gennaio 1974

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Trama del film Milano odia: la polizia non puo' sparare

Giulio Sacchi, feroce balordo di periferia, organizza il rapimento di una ragazza, figlia di un ricco imprenditore. Sulle sue tracce il commissario Grassi, che ha capito tutto, anche l'epilogo tragico della vicenda. Dovrà farsi giustizia da solo.

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Voto Visitatori:   8,12 / 10 (74 voti)8,12Grafico
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Voti e commenti su Milano odia: la polizia non puo' sparare, 74 opinioni inserite

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Gruppo REDAZIONE amterme63  @  31/10/2010 18:46:35
   8 / 10
Notevole questo film, una volta visto difficilmente si scorda. Soprattutto è il perfetto e migliore rappresentante di un certo genere stilistico (il cosiddetto “poliziesco all’italiana”) o almeno ha tutte le carte in regola per divenirlo, in quanto certe sue caratteristiche peculiari (ambientazione, rappresentazione e sviluppo della storia e del protagonista, musiche, recitazione) sono espresse in maniera perfetta, tanto da diventare un vero e proprio punto di riferimento stilistico.
E’ comunque un’opera di genere con certi precisi limiti, uno su tutti il mancato sviluppo e approfondimento dei caratteri. Lo scopo principale è quindi quello di impressionare lo spettatore, colpirlo, quasi travolgerlo nella maniera più diretta e brutale possibile. Ci si appella quindi non alla ragione ma all’emotività e all’istintualità dello spettatore.
Questo è ciò che viene trasmesso in maniera aperta, poi dietro ci sono tutta una serie di implicazioni etiche, sociali e politiche (quasi tutte riferite alla società italiana degli anni ’70) che vale la pena conoscere e approfondire, perché la dicono lunga sull’opinione pubblica e sull’atmosfera che si respirava all’epoca.
Tutto il film gira intorno al personaggio emblema di Giulio Sacchi. Diciamo che se lo si percepisce come persona, piuttosto che come personaggio, è tutto merito dell’interpretazione di Thomas Milian. Il film non ci dice assolutamente niente su di lui. Sappiamo di straforo che forse è orfano, vissuto in ambienti poveri e degradati ma niente di più. Poco, troppo poco per poter esprimere un giudizio o considerarlo in maniera realistica. Ci pensa comunque il grande Milian a caratterizzarlo perfettamente, anche se a senso unico. Ne viene fuori un misto di ordinarietà (l’aspetto esteriore, decisamente comune e senza attrattive), vigliaccheria (striscia e subisce vile la punizione del clan mafioso, ma del resto il voler risolvere tutto con il mezzo estremo – l’uccisione – denota una persona debole e insicura), opportunismo e furbizia (organizza tutto per filo e per segno e riesce a sfuggire alla polizia), cinismo e violenza (sfrutta tutto e tutti, compresa la sua donna). Non ha assolutamente niente di “positivo” e nemmeno qualcosa che possa fornire una ragione a questo comportamento estremo. Troppo facile pensare che sia qualcosa di “naturale”.
In “Arancia Meccanica” di Kubrick si assiste a un simile scoppio di violenza estrema da parte di una persona, ma tutto viene inserito all’interno di un contesto molto complesso e pieno di implicazioni. Qui ci troviamo davanti a uno sfoggio spesso fine a se stesso, senza un retroterra, uno sviluppo, un confronto, una riflessione.
Si può concludere che il personaggio di Giulio Sacchi è stato pensato come un ideale stereotipo del “criminale”, la rappresentazione perfetta che ne avrebbe dato un pensiero comune, sbrigativo e superficiale (come adesso facciamo spesso con i concetti di “clandestino” e “extracomunitario”). Faceva un po’ da proiezione collettiva di tutti i fatti di cronaca violenta che riempivano i giornali dell’epoca (oggi in confronto si vive in maniera tranquillissima).
In questa enfasi sul “negativo” c’è anche l’esigenza di “sfogare” tutto il represso collettivo, il disagio derivante da crisi economiche o ideologiche. Fatto sta che questi personaggi estremi e negativi (fino agli anni ‘70 - anni di lotta di classe - il criminale comune, dopo - anni di lotta esistenziale - il serial killer) vanno a identificarsi con quella parte buia di ognuno di noi che “segretamente” gode e si esalta nel sentirsi “libera”, dominante, appagata. Ed è così che anche Giulio Sacchi finisce per diventare una specie di “eroe” romanticamente negativo, che affascina per la sua risolutezza e per l’imperio e di cui sotto sotto ammiriamo la capacità di vincere.
L’archetipo di questa figura etica/estetica è senz’altro “Scarface”. Lenzi però come Hawks si accorge di questa traslazione di significato del male e del negativo e cerca di correre ai ripari. Il finale di “Milano odia” è quasi identico a quello di “Scarface”.

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L’ultima parola ce l’ha poi l’ordine e la legge. A tal fine viene creato il personaggio del commissario, ma si vede che è una figura “posticcia”, messa lì solo per contrastare lo strapotere etico di Sacchi. Io non ho visto i film di Don Siegel ma so che lì il personaggio del commissario (interpretato da Clint Eastwood) aveva tutt’altro rilievo e tutt’altro sviluppo. Qui veramente del commissario non sappiamo pressocché niente, un po’ come per Sacchi. Si può dire che anche lui è una specie di proiezione collettiva semplificante di come veniva concepito, dal sentire generico della gente, un ideale tutore dell’ordine. C’è da dire che allora come ora la macchina della giustizia era veramente malmessa e quindi certe “scorciatoie” diventavano quasi necessarie agli occhi della gente. Ciò non toglie che il commissario abbia moralmente torto. Chi gli dà la certezza che Sacchi sia il vero assassino? Non guardiamo che Lenzi ci mostra – a noi – tutto per filo e per segno. E se anche noi avessimo visto solo quello che il commissario ha visto? Basta pensare a tutte le vicende raccontate nei film di Fritz Lang e di Hitchcock (“Il ladro”) in cui l’ordine pubblico è convinto di sapere chi è il colpevole, quando invece è in realtà tutt’altra persona. Io mi sento più dalla parte di Lang e Hitchcock. In queste cose c’è da andare con i piedi di piombo. Meglio un colpevole in più libero che un innocente in più in prigione.
Tecnicamente e visivamente questo film è grandissimo, è di serie A. Di serie B è secondo me semplicemente il modo con cui viene concepito e rappresentato l’animo umano. Opinione personale, ovviamente.

3 risposte al commento
Ultima risposta 04/11/2010 20.51.33
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