luci d'inverno regia di Ingmar Bergman Svezia 1963
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luci d'inverno (1963)

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locandina del film LUCI D'INVERNO

Titolo Originale: NATTVARDSGÄSTERNA

RegiaIngmar Bergman

InterpretiGunnar Björnstrand, Ingrid Thulin, Gunnel Lindblom, Max von Sydow, Allan Edwall, Kolbjörn Knudsen, Olof Thunberg, Elsa Ebbesen-Thornblad, Tor Borong, Bertha Sånnell, Helena Palmgren, Eddie Axberg, Lars-Owe Carlberg, Ingmari Hjort, Stefan Larsson, Johan Olafs, Lars-Olof Andersson, Christer Öhman

Durata: h 1.21
NazionalitàSvezia 1963
Generedrammatico
Al cinema nell'Agosto 1963

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Trama del film Luci d'inverno

Tomas Ericsson, un pastore protestante, dopo la morte della moglie si accorge non solo di aver perso la fede, ma, forse, di non averla mai avuta. In piena crisi non riesce più a dare conforto ai suoi parrocchiani uno dei quali si ucciderà. È una delle vette della produzione bergmaniana: girato in un glaciale bianco e nero tenuto sulle tonalità grige come quelle delle vite dei personaggi.

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Voti e commenti su Luci d'inverno, 29 opinioni inserite

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kafka62  @  02/02/2018 13:57:35
   7½ / 10
Ne "Il settimo sigillo", nella scena del colloquio con il monaco che poi si rivelerà essere la Morte, Antonius Block confessa: "Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi, per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli?… Vorrei sapere senza fede, senza ipotesi. Voglio la certezza. Voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli". In "Luci d'inverno", di sei anni posteriore a "Il settimo sigillo", ad esprimere queste angosciose perplessità non è più uno sfiduciato cavaliere di ritorno dalle Crociate ma un pastore protestante, un ministro di Dio, colui cioè la cui funzione consisterebbe proprio nell'aiutare gli uomini a superare i dubbi che si frappongono lungo il cammino verso la fede, e che invece da questi dubbi è travolto ed annientato, fino a dover mestamente ammettere il proprio fallimento e la propria impotenza. Dio è il grande mistero irrisolto, e forse irrisolvibile, che percorre tutta l'opera di Bergman, fin dal fondamentale "Prigione". La ricerca del divino viene sviscerata dal regista svedese in tutte le sue manifestazioni possibili, da quella laica a quella religiosa, da quella scettica a quella fideistica, giungendo a conclusioni a volte contraddittorie. Così, se per Antonius Block, il quale cerca disperatamente una prova dell'esistenza di Dio, il tormento è che "se egli non risponde penso che non esiste. Allora la vita non è che un vuoto senza fine. Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla, senza speranza"; al contrario, per il pastore Tomas è il silenzio di Dio, non già la paura della sua inesistenza, ad essere intollerabile, in quanto carica l'uomo di responsabilità terribili ed angosciose: "Se Dio non esistesse… la vita avrebbe una spiegazione, sarebbe un sollievo… La crudeltà della gente, la sua solitudine, i suoi timori, tutto sarebbe chiaro come la luce del sole, le sofferenze non dovrebbero più essere spiegate".
Il fatto è che entrambi, Antonius e Tomas, affrontano la questione di Dio razionalmente, intellettualmente; ma in questa chiave, egli è affatto inconoscibile, lasciando tutt'al più nell'animo umano un malinconico ed invincibile senso di nostalgia, quella nostalgia che Kafka ha mirabilmente espresso nel suo racconto "Il messaggio dell'Imperatore". Calato nel contesto della realtà, Dio ne esce infatti trasfigurato: "Tutte le volte che ho messo Dio a confronto con la realtà, l'ho visto diventare feroce, distante e crudele, un mostro quasi" afferma Tomas. Il problema ontologico del male è uno spietato atto d'accusa contro Dio, che rende – se possibile – ancora più difficile credere. Lo aveva ben capito Dostojevskij quando, ne "I fratelli Karamazov", aveva fatto sostenere a Ivan, nel bellissimo colloquio con Alesa, che finché la malvagità del mondo rimanesse a smentirlo, egli non avrebbe potuto credere in Dio e nel mito di un sopramondo che giustificasse in qualche modo ciò che di assurdo e di bestiale vi è nella vita. L'esistenza di Dio è uno scandalo (anche nel senso del termine greco skandalon, insidia), un paradosso che l'uomo può giustificare solo con l'attività irrazionale della fede (e qui, se non temessi di andare troppo lontano, varrebbe la pena di soffermarsi almeno sul "Timore e tremore" di Kierkegaard).
Il protagonista di "Luci d'inverno" la fede l'ha però definitivamente perduta, o forse non l'ha mai avuta. I riti liturgici su cui si apre e si chiude il film non hanno più alcuna parvenza di letizia, sono solo cerimoniali vuoti, tristi e rassegnati, affrontati con la meccanicità di chi, anziché assistere al mistero eucaristico, si appresti a recitare una vecchia ed antiquata commedia. L'inutilità del suo ministero è tragicamente confermata dal suicidio del parrocchiano Jonas, il quale poco prima aveva invano sperato di ricevere da lui qualche barlume di speranza. Il fatto è che Tomas non è più in grado neppure di aiutare se stesso. "Come in uno specchio" si era chiuso con un'apologia dell'amore ("ogni genere di amore, il più elevato e il più infimo, il più oscuro e il più splendido"): in "Luci d'inverno", invece, perfino l'amore è negato, in quanto l'aridità ha irreparabilmente invaso il cuore di Tomas, allo stesso modo in cui lo scetticismo ha ucciso la sua anima. A nulla valgono gli ostinati tentativi di Marta di scuotere la sua indifferenza: la deriva esistenziale del protagonista è completa, e la sua biblica esclamazione "Dio mio, perché mi hai abbandonato?" ne è quasi la logica, ineluttabile conclusione.
Paradossalmente, proprio questa estrema, tormentata ed ambigua identità con il Cristo crocifisso schiude l'unico spiraglio di positività del film, suggerendo la necessità della sofferenza come via obbligata alla salvezza. Le immagini finali non ci aiutano purtroppo a sciogliere l'enigma, anche se, a dire il vero, la chiesa vuota, la riproposizione stanca di rituali apparentemente senza più senso e l'incapacità di superare il dolore della perdita della moglie con l'accettazione dell'offerta d'amore di Marta, rendono poco plausibile uno sviluppo in senso ottimistico del film.
"Luci d'inverno" ha nella prima parte un andamento quasi psicanalitico, proponendosi come il viaggio del regista nella oscura coscienza del protagonista. I personaggi secondari sembrano infatti agire come proiezioni fantasmatiche del subconscio di Tomas, apparendo e scomparendo con l'eterea facilità del sogno. Si tratta forse solo di un'impressione, ma una successione così perfettamente sincronizzata di entrate ed uscite di scena (ad esempio, dopo la lettura della lettera di Marta, Tomas si addormenta, e al risveglio trova Jonas vicino a lui; poco più tardi, mentre è a terra in preda allo sconforto, trova ancora Maria a consolarlo con la sua premurosa sollecitudine) fa propendere per la non casualità di questo clima onirico ed astratto. La seconda parte si avvicina invece a uno psicodramma dai connotati bergmanianamente ben riconoscibili (basti pensare al colloquio tra Tomas e Marta all'interno della scuola, in cui i due protagonisti finiscono involontariamente per ferirsi ed umiliarsi a vicenda, in un confronto tanto più crudele in quanto avviene tra due esseri che si credono votati, per necessità o per vocazione, all'amore.
A parte queste piccole e sfumate disomogeneità nella costruzione narrativa, "Luci d'inverno" risulta di un rigore formale e di un'essenzialità rari. Scarno fin quasi a sfiorare l'ermetismo, disadorno al punto di rinunciare quasi del tutto alla musica e alle scenografie esterne, praticamente privo di emozioni (anche i momenti più drammatici, come la morte di Jonas, avvengono in un clima raggelato, in una sorta di inverno spirituale che ben si accorda con l'inverno meteorologico), il film raggiunge una specie di algida perfezione, in virtù delle sue raffinate simmetrie, della sua compostezza di messa in scena e della intensità dei suoi primi piani. Bergman ha detto più volte che "Luci d'inverno" è, tra tutti i suoi film, quello che predilige. E' difficile essere completamente d'accordo con questa affermazione: pur concordando sulla maestria dispiegata dall'autore, che qui riesce a coniugare il massimo di complessità tematica con il massimo di semplicità stilistica, "Luci d'inverno" finisce inevitabilmente per essere, oltre che l'opera meno disposta a fare qualsivoglia concessione al pubblico, anche quella dialetticamente più chiusa in se stessa, ripiegata in una negatività talmente forte da rischiare di precludere ogni ulteriore, compiuto sviluppo, vuoi ideologico vuoi estetico, se non al prezzo di rovesciare totalmente (come puntualmente avverrà con film come "Il silenzio", "Persona" o "La vergogna") i ferrei presupposti da cui era partito.

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