l'atalante regia di Jean Vigo Francia 1934
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l'atalante (1934)

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locandina del film L'ATALANTE

Titolo Originale: L'ATALANTE

RegiaJean Vigo

InterpretiMichel Simon, Jean Dasté, Dita Parlo, Gilles Margaritis, Louis Lefebvre

Durata: h 1.29
NazionalitàFrancia 1934
Generedrammatico
Al cinema nel Gennaio 1934

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Trama del film L'atalante

Il comandante di una chiatta a motore "L'Atalante", sposa una ragazza di campagna. Subito dopo la cerimonia, porta la moglie, Juliette, a vivere sulla chiatta insieme ad un vecchio marinaio, un ragazzo e un cane. Fa amare a sua moglie quella semplice vita il cui itinerario è fissato dagli ordini della Compagnia, e la cui monotonia è rotta solo dagli scali. Le fa anche odiare la riva, simbolo di piaceri malsani. Tuttavia, ad uno scalo, un giovane marinaio, innamorato di Juliette, le propone di portarla in città e le fa balenare i piaceri che l'aspettano. La donna rifiuta e l'uomo, sorpreso dal comandante, viene scacciato dalla chiatta. Ma l'idea si radica nella mente della giovane e, una sera, lei abbandona "L'Atalante", prende un trenino e raggiunge la città. Il comandante rifiuta la proposta fatta dal vecchio marinaio di andare a cercare sua moglie: "L'Atalante", secondo gli ordini della direzione, partirà verso altri scali. Quando uno scalo riporta la chiatta nella zona, il vecchio, malgrado il divieto del comandante, una domenica va in città, in cerca di Juliette. Invano percorre strade e bar. Sulla via del ritorno, la scorge in un negozio, dove sta ascoltando in cuffia una canzone, e la riporta a "L'Atalante".

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Voto Visitatori:   8,82 / 10 (30 voti)8,82Grafico
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Voti e commenti su L'atalante, 30 opinioni inserite

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kafka62  @  10/02/2018 17:54:39
   10 / 10
L'Atalante ha beneficiato negli ultimi tre decenni di un sensibile e imprevisto ritorno di popolarità, grazie soprattutto all'utilizzazione di una sua celebre sequenza come sigla di Fuori orario, un programma televisivo che, coniugando l'amore per il cinema con un intento neppur troppo nascosto di rottura delle regole e delle convenzioni dell'establishment audiovisivo, è diventato ben presto un oggetto di culto per i cinefili più accaniti (e nottambuli). Il film di Vigo è di fatto assurto – al di là probabilmente delle stesse intenzioni originarie dell'autore -– a simbolo di un cinema diverso, non irregimentato né catalogabile, anelante a tradurre in ogni sua inquadratura le qualità fotogeniche ineffabilmente insite negli oggetti, nelle persone e negli ambienti. Non è esagerato dire che ne L'Atalante si riflette la natura stessa – e la ragion d'essere – del cinema. Nella sequenza in cui Jean si tuffa nel fiume per vedere il volto dell'amata si realizza infatti il sogno di ogni spettatore cinematografico, quello della ricerca dell'immagine perfetta e irraggiungibile, seducente e chimerica; l'acqua dove appaiono magicamente le fascinose sembianze di Dita Parlo (la più bella sovrimpressione della storia del cinema, secondo Ghezzi) è lo schermo ideale dove le immagini sono cercate, bramate e materializzate, il luogo in cui è possibile dar vita all'insolito, all'inconoscibile e al fantastico, lo spazio nel quale si realizza infine la fusione sublime tra l'immaginario collettivo (nel film, la pulsione erotico-amorosa di Jean) e l'opera d'arte (l'oggetto del desiderio, Julie).
Al di là di ogni considerazione metacinematografica, L'Atalante può essere assunto come esempio di un cinema che attribuisce il predominio assoluto alle immagini e non alla storia. Vigo riesce nella non facile impresa di trascendere il mediocre e melodrammatico soggetto di partenza (due sposini si amano, si perdono quando lei cede alle illusorie e ingannatrici lusinghe del mondo, e infine si ritrovano, definitivamente convinti di non poter più fare a meno l'uno dell'altro), utilizzandolo alla stregua di un semplice contenitore in cui riversare la propria inesauribile ispirazione creativa. Questo spiega l'attenzione che il regista dedica ad episodi marginali, quotidiani, non strettamente funzionali al progredire della vicenda, eppure fondamentali per creare quel clima simpatetico che avvince progressivamente lo spettatore e lo lega in maniera ineluttabile al destino dei protagonisti. A differenza di quello che molti pensano, L'Atalante non è un film surrealista (come lo era sotto molti aspetti Zero de conduite), ma un film sostanzialmente realista, in cui però il realismo nega se stesso, in una visione soggettiva della vita operata ad un livello emozionale e istintuale assai più che psicologico o comportamentale. Basti pensare alla fatidica scena notturna in cui i due amanti lontani si tormentano, in preda all'insonnia, per la mancanza dell'altro: in essa Vigo riflette, senza sentimentalismi né mediazioni intellettuali, la propria concezione, violenta e disperata, fremente e autodistruttiva, dell'amore, tocca cioè il nervo scoperto e sensibile del tema, senza ammantarlo di paludamenti logici e razionali ma avvalendosi soltanto di una straordinaria trasfigurazione lirica (come quando dall'abbraccio finale tra i due amanti, con un semplice stacco, si passa all'indimenticabile visione in campo lungo della chiatta che risale il fiume).
Dato che gli istinti naturali, quando sono lasciati liberi senza freni né inibizioni, sono tanto sovversivi quanto le più audaci fantasie surrealiste, non si può certo dire che Vigo abdichi ne L'Atalante, nonostante una (apparentemente) maggiore normalità narrativa, alla sua vocazione trasgressiva e antiistituzionale. Anzi, l'anima del film è proprio l'esplodere del desiderio erotico all'interno della vita di coppia: i due coniugi lasciano trasparire in ogni loro gesto, dai giochi innocenti sulla tolda fino agli impetuosi abbracci sul pavimento della cabina, una passione intensa e febbrile, che sovverte totalmente (siamo negli anni 30!) la tradizionale rappresentazione - pudica e quasi asessuata – dell'amore matrimoniale. Per Vigo l'amore è soprattutto amour fou, sentimento assoluto e fagocitante, che si nutre soprattutto di una pulsione masochista al tormento, alla gelosia e all'annullamento di sé nella persona amata. E' per questo che il lieto fine non deve trarre in inganno: la ricomposizione del dramma di Jean e Julie non riesce infatti a cancellare del tutto quell'ombra di inquietudine che, pur tra momenti ludici e gioiosi, grava sull'intero film, come se amarsi (e fare dell'amore il centro di gravità della propria esistenza) significasse votarsi anima e corpo alla sofferenza.
Non può sfuggire a questo punto il fatto che L'Atalante, lungi dall'essere un film univoco e lineare, è soprattutto un'opera fondata su una forte componente di ambiguità: come l'epilogo può essere interpretato (e difatti lo è, dalla maggior parte dei critici) anche nei termini di una palingenesi amorosa, di una rigenerazione affettiva che prelude a un futuro di piaceri quotidiani e "minori" ma autentici, parimenti il dualismo tra il fiume (ossia la libertà, la provvisorietà, la disponibilità a reinventarsi la vita ogni giorno) e la città (la sicurezza fittizia, l'artificiosità dei rapporti umani, l'assoggettamento alle leggi economiche e sociali) non è così semplicistico e schematico come può apparire a prima vista. E' indubbio che il fiume rappresenti in prima istanza un'oasi di serenità al riparo dai pericoli del mondo, ma è altresì vero che il diavolo tentatore – il venditore ambulante – che cerca di togliere Julie dal suo piccolo e angusto universo è per molti versi espressione di una vitalità positiva, spregiudicata e irregimentabile che assomiglia assai a quella di père Jules, il quale da parte sua si muove nell'elemento urbano – apparentemente contrario alla sua natura – con una disinvoltura sorprendente. Insomma, i termini antagonisti e conflittuali si elidono e si confondono tra loro, facendo perdere di importanza e di significato ogni intendimento astrattamente didascalico. Del resto, non è stato certo per affermare il valore della vita libera e randagia, in antitesi ai falsi miti della modernità, che Vigo ha girato L'Atalante. Non ci sentiamo quindi per nulla imbarazzati nell'affermare che Jean non ci è per nulla simpatico, chiuso com'è nel suo ottuso e piatto grigiore, e che in realtà l'autentico protagonista morale della storia è père Jules.
Nel disegnare il personaggio di père Jules, Vigo ha certamente avuto presente il precedente renoiriano (del 1932 e anch'esso interpretato dall'istrionico e incontenibile Michel Simon) di Boudu. Il barbone che si introduce con sfacciata ingratitudine nella casa del suo salvatore sconvolgendone il ménage piccolo borghese ha infatti con père Jules numerosissimi punti di contatto, che vanno da una sensualità rozza e selvatica a un eccentrico e sregolato anarchismo, per non parlare delle vere e proprie analogie dirette (père Jules si rade gli arruffati capelli così come Boudu si taglia la sua folta barba da clochard). Al di là di ogni volontà citazionista, risulta chiaro che père Jules è un personaggio autenticamente vigoliano, che incarna, come l'Huguet di Zero de conduite, il vitalistico ed eterodosso libertarismo dell'autore. Vigo dà infatti a père Jules uno spessore umano inusitato, costruendogli con amorevole precisione un universo scenografico a sua esatta immagine e somiglianza. Significazioni metonimiche a parte, la cabina di père Jules è un vero capolavoro di fantasia e visionarietà: tutto l'ambiente è stravagante ed eccessivo, pieno com'è di conchiglie, carillon, cineserie, fonografi, reti da pesca, zanne di elefante, mani mozzate rinchiuse dentro un barattolo di vetro, e cento altri strampalati oggetti del più esotico e bizzarro trovarobato mai visto al cinema. Perfettamente a suo agio in questo spazio, Michel Simon si impadronisce virtuosisticamente del personaggio, sublimandolo con la sua straripante carica fisica ed una stupefacente abilità di improvvisazione: Simon allestisce un numero di marionette, suona la fisarmonica, fuma una sigaretta con l'ombelico, batte giocosamente i pugni sul tavolo, mima i passi di una danza russa e fa tante altre cose ancora, in una performance inarrestabile e assolutamente unica nel suo genere. Quando prova con imbarazzato divertimento la gonna della padrona o gira con gli inseparabili gatti sulla spalla o si esibisce in un finto incontro di lotta libera sulla coperta della barca, Simon raggiunge ineguagliabili vette di comicità, tanto sanguigna e carnale – popolaresca quasi – nel modo di proporsi al pubblico, quanto raffinatissima negli esiti artistici raggiunti (basti pensare alla scena in cui, abbandonato ubriaco sul letto, egli annaspa nella semi-incoscienza, con l'espressione di ebete e vagamente stupita impotenza).
L'esuberante lepidezza e multiformità di un personaggio come père Jules (oscenamente primitivo e innocentemente malizioso, burbero dal cuore gentile, aiutante indisciplinato eppur fedelissimo, e ancora superstizioso, intemperante, permaloso e canagliesco) è il necessario contrappeso alla malinconia e alla tristezza presenti in altre parti del film. Non si può dimenticare facilmente, ad esempio, il senso di angosciosa mestizia, di irreversibile distacco dal proprio passato, che è presente nella sequenza della partenza della chiatta dopo la celebrazione del matrimonio, a cui l'innaturale immobilità delle persone sulla riva e quella luce che si accende in una casa solitaria danno una valenza quasi kafkiana; oppure l'atmosfera di presaga inquietudine della scena in cui Jean cerca la moglie nella nebbia e la ritrova accovacciata in un angolo del battello, prima avvisaglia di quell'insoddisfazione che porterà la giovane ad avventurarsi nottetempo nella metropoli. La costante alternanza di comicità e tragedia, che permette al film di evitare i rischi di una riduttiva monodimensionalità, è spinta fino al punto di far coesistere entrambe le dimensioni all'interno di un unico episodio. La sequenza in cui père Jules e Jean (appena abbandonato da Julie) giocano a dama, è esemplare in tal senso, in quanto Jean, nonostante i maldestri imbrogli di père Jules e il suo comprensibile disinteresse verso la partita, rischia seriamente di vincere, tanto che quest'ultimo per salvarsi in extremis deve costringere il mozzo a scaraventare il gatto sulla scacchiera in modo da mandare tutto all'aria.
Molti critici, anche a motivo di questa mancanza di unità stilistica, hanno parlato di incoerenza narrativa. Ma, a parte il fatto che L'Atalante è stato a suo tempo maltrattato in sede di montaggio e che solo di recente si è potuto ammirarlo nella sua versione integrale restaurata, è evidente che a Vigo non è mai interessata più di tanto la storia in se stessa. Ne L'Atalante mancano infatti una disposizione in scala gerarchica degli episodi, una strutturazione lineare e ordinata dell'impianto narrativo e perfino i tradizionali raccordi invisibili di montaggio, ma ciò è in qualche modo reso indispensabile dal fatto che – come si è già fatto notare in precedenza – sono gli episodi secondari e marginali, e soprattutto le "atmosfere", a ricevere dal regista parigino la massima attenzione. A dispetto della sua naïveté apparente, lo stile di Vigo è in fondo estremamente rigoroso e innovativo. La sua macchina da presa, ad esempio, è sovente collocata in posizioni inconsuete, verticale sopra la scena oppure a livello del terreno (come quando Jean avanza a gattoni verso la cinepresa o nella sequenza della chiatta che attracca al molo, con la bitta in primo piano), in uno sforzo continuo e inesausto di creare prospettive di grande suggestione ed originalità estetica. L'ansia di innovare anche formalmente l'arte cinematografica non rende tuttavia Vigo insensibile alla tradizione filmica del passato decennio. Anzi, in alcune plastiche immagini (ad esempio, la donna che saluta dalla riva insieme al figlioletto, entrambi ripresi dal basso verso l'alto con una illuminazione di taglio) si sente l'influenza di Ejzenstejn e della scuola russa. Gran parte del merito va sicuramente attribuito all'operatore Boris Kaufman, fratello di Dziga Vertov, che ha lavorato moltissimo sulla luce, raggiungendo esiti egregi soprattutto nella difficile scena sott'acqua, fotografata in maniera perfetta. Anche l'apporto dell'altro collaboratore abituale di Vigo, il musicista Maurice Jaubert, risulta fondamentale nell'economia del film. Oltre a scrivere una serie di motivi indimenticabili (spesso suonati in scena da una fisarmonica o da un vecchio disco), Jaubert prosegue in quella stimolante opera di sperimentazione musicale iniziata nel film precedente. Mentre in Zero de conduite Vigo e Jaubert avevano, nella scena dei cuscini, montato al contrario la musica per accentuare il lato onirico e surreale della sequenza, ne L'Atalante, nella scena parallela dell'insonnia dei due amanti lontani, essi sovrappongono abilmente due temi musicali distinti, creando un'atmosfera riuscitissima di lirico struggimento.
Anche prescindendo dagli specifici aspetti tecnici, l'importanza de L'Atalante nella storia del cinema non può essere messa in discussione, come dimostrano le numerose citazioni, dirette e indirette, che il film ha avuto nel corso degli anni. Persino due registi dallo stile inconfondibilmente personale come Tarkovskij e Fellini hanno subito, forse in maniera inconscia, l'influenza di Jean Vigo: il personaggio del Matto ne La strada sembra infatti modellato su quello del venditore ambulante impersonato da Margheritis, mentre la scena de L'infanzia di Ivan in cui il fanciullo vede (o meglio, sogna di vedere) una stella in fondo al pozzo e allunga le mani verso l'acqua per toccarla ricalca quella, più volte citata in queste pagine, dell'immersione di Jean nelle acque del fiume per rintracciare il volto di Julie. Ma, senza bisogno di andare così lontano nel tempo, a testimonianza dell'affetto che anche le giovani generazioni di registi mostrano di possedere nei confronti di Jean Vigo è sufficiente ricordare il più recente Gli amanti del Pont-Neuf di Leos Carax, nel quale la chiatta che raccoglie i due protagonisti dalle fredde acque della Senna ricorda quella che conduce Jean e Julie verso un avvenire ignoto e rischioso, ma pieno di amore e di libertà, vale a dire i due ideali per i quali Vigo ha combattuto nella sua breve vita con fede cieca e disperata.

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