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Non riesco a dare la sufficienza a questo film. Intriso di fanatismo, eccessivo, troppo “terreno”. Mi sfugge il senso del ragionamento che spinge un regista (?) a insistere morbosamente sulle lacerazioni della carne del Cristo, inflitte da un centurione che sembra uscito da un trattato lombrosiano o da un bestiario medievale. Mi sfugge il motivo per cui la resurrezione, uno dei più grandi misteri del Cristianesimo, viene affrontata come un mero accidente cui riservare solo pochi fotogrammi. Parlo da atea che riconosce la statura di Gesù, come colui che riuscì a gettare il seme del cambiamento e dell’Amore: la grandezza di Cristo sta nel suo Verbo, non solo nella capacità di resistere alle torture dei suoi aguzzini. Non credo che Mel Gibson abbia mai guardato davvero dipinti come il “Cristo Morto” di Mantegna, che nella sua livida ed esangue figura quasi priva di ferite trasmette tutta la tragica evidenza dell’umana sofferenza, o come “L’incredulità di Tommaso” di Caravaggio, in cui il gesto dell’apostolo dubbioso è tanto realistico da essere commovente. Nella sua fanatica ignoranza, Gibson crede di poter instillare in noi il senso di pietà infilando qualche flashback a effetto durante il calvario di Gesù trasformato in un animale da macello. Si salva solo il dolente personaggio di Maria, che nei suoi sguardi di muta sofferenza rende appieno la tragedia di una madre che assiste al martirio del figlio.