cane randagio regia di Akira Kurosawa Giappone 1949
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cane randagio (1949)

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locandina del film CANE RANDAGIO

Titolo Originale: NORA INU

RegiaAkira Kurosawa

InterpretiToshiro Mifune, Takashi Shimura, Ko Kimura, Keiko Awaji

Durata: h 2.02
NazionalitàGiappone 1949
Generedrammatico
Al cinema nel Novembre 1949

•  Altri film di Akira Kurosawa

Trama del film Cane randagio

A Tokyo, durante un tragitto su un bus, l'agente di polizia Murakami viene derubato della pistola d'ordinanza; dopo poco tempo la stessa pistola verrà utilizzata per commettere un crimine. L'onore, e quindi il diritto al proprio lavoro e ruolo sociale, sarà salvato solo recuperando l'arma. Comincia un itinerario allucinante alla ricerca del ladro, con la costanza del giusto che supera la fragilità della giovinezza.

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Voto Visitatori:   8,38 / 10 (17 voti)8,38Grafico
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Voti e commenti su Cane randagio, 17 opinioni inserite

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Thorondir  @  05/12/2023 12:12:20
   8 / 10
La ricerca di una pistola rubata che diventa viaggio nei bassifondi poveri del Giappone post Seconda guerra mondiale: locali di seconda mano, prostitute, quartieri di malfamati e derelitti, violenza e furti. Un'elegia nera (brutale per i tempi in un paese come il Giappone) e messa in scena delle differenze generazionali tra la vecchia e la nuova generazione (i due poliziotti). Ne viene fuori un film in parte episodico (sono un po' i problemi del genere) ma anche affascinante e decadente, disperato e sporco, poetico e realista, con un Kurosawa costantemente in grado di adattare il registro registico alle fasi del film (e con alcune splendide inquadrature).

Gruppo COLLABORATORI JUNIOR Invia una mail all'autore del commento emans  @  26/03/2020 09:35:44
   7 / 10
Per un poliziotto Giapponese perdere la pistola è come per un samurai perdere la propria spada. Il senso dell'onore con la "O" maiuscola è sempre presente nel cinema orientale e anche nel mondo di Kurosawa.
La prima parte del film ci porta sempre piu' in basso, nei sobborghi puzzolenti e sudaticci di Tokyo, con immagini anche coraggiose per l'epoca.
Nella seconda parte, quella che mi è piaciuta meno, assistiamo ad un indagine vera e propria dove il regista sembra un po' "imitare" il genere "Noir" tanto in voga in Usa in quel periodo.
Nel complesso, considerando Kurosawa uno dei piu' grandi maestri del cinema, ritengo questo film uno dei suoi minori.
Se in altri casi la lunga durata non mi è mai pesata, in questo caso ho risentito un po' di noia.
Ma resta pur sempre un film ben fatto e di tecnica sopraffina.

kafka62  @  03/03/2018 15:49:51
   9 / 10
"Darei cento Rashômon per vedere un solo Cane randagio" (Georges Sadoul)

C'è una sequenza, nella seconda parte di "Cane randagio", che a mio parere esemplifica molto bene la grande originalità del cinema di Kurosawa. L'anziano ispettore Sato, in una pausa delle indagini, ha invitato il giovane collega Murakami nella propria abitazione; i due osservano e commentano i numerosi attestati di servizio appesi alla parete, quindi Sato esorta l'ospite a bere con lui qualcosa di fresco, ma, prima di uscire a prendere le bevande, ritorna sui suoi passi, raccoglie un basso tavolino dove sono posati alcuni giocattoli e lo sposta al centro della stanza. La macchina da presa indugia per alcuni, lunghi secondi su questi piccoli oggetti senza importanza (un cavallino a dondolo e un'automobilina), riprendendoli addirittura in primissimo piano, come se fosse stata ipnotizzata dalla loro infantile, stilizzata bellezza. Non c'era nessun motivo d'ordine narrativo o simbolico che obbligasse a soffermarsi su queste figure, le quali potevano essere tranquillamente trascurate senza che la struttura del film avesse a soffrirne, eppure questa inquadratura risulta alla resa dei conti più affascinante ed esteticamente "necessaria" di quelle che la precedono e la seguono. Il fatto è che Kurosawa, disseminando di simili invenzioni visive il percorso narrativo, tutto sommato tradizionale, di "Cane randagio", intende riaffermare prepotentemente la presenza insostituibile del regista dietro la realtà da lui descritta. L'innegabile realismo di fondo della pellicola, del quale parlerò più avanti, è come contraddetto da una marcata impronta di soggettivismo. Nella sequenza del music-hall, ad esempio, assistiamo a uno stupendo saggio di osservazione umana, degno delle più memorabili pagine pabstiane o felliniane: durante un intervallo dello spettacolo, le giovani ballerine si avviano in uno stanzone dove si lasciano cadere a terra, accalcandosi le une sulle altre, per riposare. In questo ammasso bestiale di corpi stanchi, ansanti e sudati, c'è qualcosa di più di un saggio di fenomenologia descrittiva o di un mero preludio all'incontro tra i due investigatori e la ballerina Harumi: c'è una fervida sensibilità, una instancabile curiosità nei confronti degli esseri umani che induce l'autore a mettere per un momento da parte le ragioni dell'intreccio per fermarsi ad osservare, immedesimandovisi, una realtà provocatoriamente inusuale, così come, più o meno negli stessi anni, era dato di vedere nei film del miglior De Sica. Ma se De Sica utilizzava queste digressioni (basta ricordare il risveglio della servetta in "Umberto D.") per affermare la continuità cronologica dell'opera filmica, giungendo quasi a far coincidere il tempo diegetico con il tempo reale, Kurosawa al contrario fa sentire in ogni istante il suo atteggiamento di regista-demiurgo, ora allungando ora restringendo i tempi dell'azione, ora creando tensione ora smorzandola, alternando climax e anticlimax in maniera a tratti geniale (vedi la conclusione del serrato inseguimento tra Murakami e la borseggiatrice, con il poliziotto che si riposa al suono di una malinconica fisarmonica e la magica notte stellata che sembra aprire ai due personaggi insospettati spiragli di felicità).
Pur non potendo nascondere l'esistenza di reciproche influenze (o sarebbe meglio dire corrispondenze) dovute a situazioni storico-sociali analoghe, Kurosawa va ben al di là dell'esperienza neorealistica italiana, non fosse altro che per ragioni di natura strettamente stilistica. L'inconsueta raffinatezza estetica di "Cane randagio" dà infatti della realtà una visione ora impressionista (soprattutto laddove il regista fa uso delle sovrimpressioni) ora addirittura iperrealista (vi è, ad esempio, un grande utilizzo di primi piani e di dettagli, dal vestito bianco gettato a terra al sangue che gocciola sul fiore, i quali hanno l'effetto di isolare, anche a fini simbolici, volti e oggetti dall'ambiente che li circonda), ma non viene neppure disdegnato il ricorso all'inquadratura classica, americana, dal taglio nitido e preciso, esaltato dalla profondità di campo e dalle tonalità chiare della fotografia. Come si è già accennato, il montaggio è molto importante nel dare al film un andamento sincopato, ora incalzante e frenetico (in una sequenza dai rapidi e secchi cambiamenti di inquadratura, Murakami si reca al laboratorio scientifico della polizia per avere informazioni sulla pallottola usata nella sparatoria della sera precedente, quindi si fionda al poligono di tiro per rintracciare un proiettile da lui conficcato nella corteccia di un albero durante un'esercitazione, infine ritorna al laboratorio per ricevere la conferma che le due pallottole sono state sparate dalla stessa pistola), ora sospeso e introspettivo (vedi le lunghe conversazioni tra Murakami e Sato, vere e proprie oasi di riflessione sottratte all'incombere degli eventi).
In certe scene, vi è poi l'interessante elaborazione di un montaggio interno al quadro, il quale genera effetti a scoprire di notevole efficacia: nella migliore di queste, la moglie dell'albergatore, passeggiando su e giù con il figlioletto in braccio, si allontana lentamente dalla macchina da presa, mentre sulla scala, rimasta da sola in primo piano, compaiono ad un tratto i piedi del pericoloso ricercato. Questa sequenza topica, la cui suspense esemplare sembra uscita fuori da un film di Hitchcock (mentre il criminale, messo involontariamente sull'avviso dalle incaute parole della donna, si fa avanti con minacciosa lentezza, Sato non riesce, per una serie di equivoci, a mettersi in contatto telefonico con Murakami, e quando finalmente è in grado di farlo è troppo tardi, e dal ricevitore impugnato dall'amico risuonano solo due colpi di pistola), fa apparentemente rientrare "Cane randagio" nella categoria formale del film poliziesco, ma così come Kurosawa si distingue, per i motivi che abbiamo appena visto, dai cineasti realisti, allo stesso modo egli prende le distanze dai canoni e dagli stilemi del genere. Anzi, sarebbe più corretto parlare di generi, perché il film attraversa, nel suo svolgersi, più di un territorio dell'immaginario cinematografico: il referto sociologico in chiave documentaria, il thriller, il film psicanalitico con risvolti esistenziali. Kurosawa si avvale di questi generi in modo, per così dire, surrettizio, li contamina con la sua personalissima concezione del cinema e realizza un'opera a prima vista ibrida e diseguale, in realtà perfetta nella sua progressione stringente e ineluttabile.
"Cane randagio" inizia con una voce fuori campo che sembra distanziare l'azione su un piano di asettica oggettività: lo spunto, il furto di uno strumento di lavoro (in questo caso la pistola) che interviene a sconvolgere un'esistenza individuale, ha molti punti in comune con quello di "Ladri di biciclette", ma a smorzare il pathos narrativo, e ad accrescere di conseguenza il carattere di mera inchiesta fenomenologica, c'è il fatto che esso è già avvenuto e a noi non rimane che assistere alla sua ricostruzione a posteriori. C'è in questa prima fase una fortissima impressione di realtà. Gli ambienti, dalla stazione di polizia alle strade periferiche di Tokyo, sono ritratti in maniera per nulla stereotipata, mentre il caldo torrido incombe sui personaggi condizionandone i comportamenti: per tutto il film c'è un continuo agitar di ventagli, un affannoso asciugarsi con i fazzoletti le fronti madide di sudore, un onnipresente ronzare di ventilatori in funzione. Non si sottolineerà mai a sufficienza l'importanza, nell'economia globale del film, del clima e delle sue implicazioni metaforiche (l'afa agostana di Tokyo sembra la materializzazione dell'angoscia senza sbocchi e dell'inquietudine spirituale che gravano sui personaggi, mentre la pioggia torrenziale del finale accompagna la catarsi liberatoria). E' però con la lunga sequenza della ricerca della pistola nei bassifondi di Tokyo che Kurosawa raggiunge il culmine di questo atteggiamento documentario: si tratta di dieci minuti di splendido cinema neorealistico (che non a caso hanno fatto parlare di "Cane randagio" come di una sorta di "Tokyo città aperta"), in cui la macchina da presa, mossa forse più dalla curiosità entomologica del regista che dall'ansia del protagonista di ritrovare la sua pistola, si aggira instancabilmente nei sobborghi della capitale, in ambienti equivoci e degradati mai visti prima di allora al cinema. La costruzione sintattica di questa straordinaria "sinfonia dei bassifondi" è molto originale: l'andamento è lento, frammenti apparentemente casuali eppure fortemente significanti di realtà si sedimentano via via gli uni sopra gli altri, mentre il senso del movimento spaziale e temporale è dato dall'alternarsi a singhiozzo delle musiche e delle sovrimpressioni.
Quando Murakami arresta la giovane ricettatrice, inizia la parte propriamente poliziesca del film. Il passaggio dal documentario al thriller comporta da una parte una maggiore strutturazione narrativa, con il ricorso a tutti i topoi del genere (interrogatori, pedinamenti, imboscate e sparatorie, con alcune sequenze memorabili quali l'arresto di Honda alla stadio del baseball), dall'altra genera un considerevole aumento della tensione. Il furto della pistola passa in secondo piano di fronte a un duplice omicidio e la ricerca individuale dell'arma viene sostituita dalla caccia a un colpevole che si rivela di ora in ora più pericoloso. Ciò provoca anche un maggior coinvolgimento emotivo del protagonista. Non c'è più solo il posto di lavoro in pericolo (aspetto che avvicinava Murakami all'Antonio Ricci del film di De Sica) o il rischio di sanzioni disciplinari, ma una vera e propria corresponsabilità negli avvenimenti: l'assassino uccide infatti con la pistola ed i proiettili di Murakami, il quale è anche convinto di avere con il proprio comportamento intempestivo (ha arrestato la ricettatrice proprio quando Yusa era in procinto di restituire la pistola) esacerbato l'animo dell'avversario, trasformandolo da "cane randagio" in "cane rabbioso". Murakami si sforza febbrilmente di calarsi nella misteriosa psicologia di Yusa, al punto che quest'ultimo giunge progressivamente ad assumere i connotati di un doppio simbolico del protagonista ed apparirgli come la sua metà nascosta ed oscura. Dall'incontro con i familiari, l'amico e la fidanzata si apprende che Murakami e Yusa hanno avuto esperienze similari; entrambi hanno fatto la guerra, ad entrambi è stato rubato lo zaino contenente tutti i loro averi ed entrambi si sono trovati di fronte a un fatidico bivio: diventare con fatica e sacrificio un uomo onesto oppure perdersi sulla strada del crimine. L'opposto destino di Murakami e Yusa è però qualcosa che va oltre la schematica dicotomia tra Bene e Male, tipo dottor Jekyll e mister Hide o William Wilson. La caccia all'assassino diventa infatti un graduale processo di autoconoscenza che conduce Murakami a porsi dei fondamentali interrogativi etici. E', questa, la parte più problematica e complessa del film, che si distingue principalmente per la lunga conversazione serale tra Murakami e Sato (impersonati dai due attori-simbolo di Kurosawa, Toshiro Mifune e Takashi Shimura), i quali sostengono due antitetici concetti del Male. Mentre per l'anziano ispettore "il Male è il Male" e come tale deve essere combattuto ed estirpato, perché "molti agnelli possono essere uccisi da un solo lupo", Murakami esprime da parte sua una concezione più problematica, o meglio ancora dostojevskijana, dell'uomo: "Al mondo non ci sono persone cattive – replica a Sato -, solo ambienti cattivi". La differenza che passa tra i due personaggi è la stessa differenza che divide le loro generazioni, quella dei padri, tenacemente legata ai vincoli familiari, alle tradizioni e ai valori immutabili e assoluti di una volta, e quella del dopoguerra, che ha vissuto sulla propria pelle la tragica esperienza bellica ed è cresciuta senza certezze né ideali. Per Kurosawa, il confine tra Bene e Male è quanto mai labile e indistinto, e dietro a ogni criminale si nasconde l'uomo, come i due poliziotti scoprono leggendo il tormentato diario di Yusa, nel quale questi esprime il suo doloroso, inguaribile disagio di vivere.
Essere buoni o cattivi è forse una questione di circostanze più o meno fortuite: il regista trasferisce visivamente questo pensiero nel bellissimo duello finale, in cui i due avversari si rotolano nell'erba, sotto una pioggia scrosciante, fino a che non riusciamo più a distinguere chi è il poliziotto e chi il delinquente. Quando, al termine della lotta, poco distante dai due uomini riversi tra le margherite passa (come in una famosa scena del "Bidone" felliniano) un corteo di bambini che cantano, Yusa sembra rendersi per la prima volta conto della sua situazione di uomo perduto e lancia un lungo urlo straziante: in quel momento, lungi dall'apparirci come un criminale sanguinario, Yusa riesce a commuoverci e a impietosirci quasi quanto il povero marito della donna da lui uccisa. Di fronte a questo dramma umano, ogni schema morale salta o diventa confuso, e la commiserazione si mescola alla ineludibile necessità di far rispettare la legge. Il moralismo di Kurosawa si carica così di valenze straordinariamente moderne, che anticipano di ben dieci anni la nouvelle vague giapponese: il criminale di "Cane randagio" assomiglia infatti ai tanti "insetti umani" di Imamura e di Oshima, anche se, ad essere sinceri, Kurosawa non possiede la carica eversiva e iconoclasta dei suoi più giovani colleghi. Ciononostante, la critica sociale del regista è meno morbida di quanto si possa credere. Tra le righe è possibile tra l'altro leggere una indiretta condanna dell'influenza americana post-bellica, tanto più perniciosa in quanto ha irrimediabilmente invaso tutti i campi della vita sociale (dal modo di vestire allo sport, dalla brillantina al music-hall).
L'importanza maggiore di "Cane randagio" è comunque quella di avere espresso con energia e convinzione la necessità di staccarsi definitivamente dal cinema dei padri e di immergersi nella realtà sgradevole e nascosta, nei bassifondi delle città, pescando tra i trafficanti e i borsisti neri, le prostitute e i piccoli criminali i personaggi naturali dei propri film. Gli occhi di Murakami davanti ai quali scorrono, in sovrimpressione, le immagini inattese di una Tokyo-formicaio umano diventano perciò il simbolo di uno sguardo vergine e puro che il regista e gli spettatori devono adottare per poter affrontare le complesse e urgenti problematiche della società contemporanea, oggi non meno che nell'immediato dopoguerra.

Filman  @  22/09/2016 19:35:38
   9½ / 10
Akira Kurosawa continua ad anticipare in modo precoce il cinema di genere moderno, e NORA INU (Stray Dog) rappresenta un passo fondamentale nel suo cinema, ancora una volta interessato alla condizione del Giappone nell'imminente secondo dopoguerra. E quale mezzo migliore di un innovativo noir metropolitano per scavare a fondo non solo nello specifico degrado fatto di accumulo sociale e caratterizzato da povertà e crimine, ma anche più in generale, sviscerando una nazione che ha smarrito le proprie virtù e la propria identità a scapito di un'evidente occidentalizzazione, il tutto partendo da un semplice McGuffin, come una pistola rubata, per indagare successivamente in ogni sottostrato sociale. Operando sulla messinscena, il regista interpreta il genere poliziesco secondo la sua sensibilità e con uno sguardo originale, distinto dalla varietà di meccanismi e una ricchezza compositiva altrettanto disparata, tale da eseguire geometrici primi piani per lunghi e intriganti dialoghi e riassumere l'eredità più gradevole del cinema muto con ariose o fulminanti carrellate negli spazi aperti. Menzione ulteriore per la rappresentazione dei personaggi, anche loro specchio del proprio contesto storico, in cui viene evidenziato il rapporto collaterale tra protagonista e antagonista, ennesimo elemento neonoir in forma primordiale.

vieste84  @  11/01/2013 19:02:49
   7½ / 10
Forse il film di Kurosawa che fin ora mi è piaciuto meno, mi ricorda per i protagonisti un po il precedente "angelo ubriaco" e per trama "ladri di biciclette".
E' un affresco neorealista giapponese, il furto come nel film di De sica serve per entrare nei meandri della città per mostrarci tutto il loro degrado.
AL di sotto dei polizieschi convenzionali ma non va visto come tale, ma come un opera riflessiva.
Un po lento, indovinati tutti i personaggi, Mifune che vedo per la prima volta nei panni di uomo normale e non da duro o irascibile che sono a lui ruoli più convenzionali. Non nego che alla fine sono rimasto un po deluso ma cmq è uno di quei film che ti rimangono dentro e pure se passano i giorni ti ci rimane qualcosa dentro, quindi come sempre onori al grande maestro giapponese.
E' un film da 7, ma se contestualizzato e se si analizza il periodo di uscita budget e cose varie, acquista un valore da 8, cmq ciò non toglie che se fosse stato fatto da un altro regista, probabilmente oggi nessuno se ne ricorderebbe

Invia una mail all'autore del commento Suskis  @  03/10/2011 00:00:06
   7½ / 10
Ci mette un po' (troppo) a ingranare e, infatti, secondo me è davvero troppo lungo. I personaggi sono tutti interessanti ma ho trovato ancor più interessante questo Giappone post bellico, già così pesantemente colonizzato dall'America, davvero ben osservato dal regista. Colonna sonora a volte fuori luogo. Mifune giovanissimo e ancora un po'acerbo.

incubodimorte  @  08/04/2011 13:44:09
   9 / 10
Bello, bello. Devono essere considerati anche questi film più riflessivi di Kurosawa, non solo quelli sui samurai!

Gruppo COLLABORATORI SENIOR Ciumi  @  24/05/2010 09:00:28
   8½ / 10
Parlare di un film di Kurosawa, è parlare del Cinema di Kurosawa: intenso; umanamente e socialmente profondo; mai disposto a rinunciare a raccontare una storia; corale e individualistico; intento soprattutto ad osservare il tema trattato da varie angolazioni e, al contempo, giornalistico e drammatico, distaccato e coinvolto.

La pistola di 'Cane randagio' diviene il mezzo mediante cui esplorare, a livello psicologico e fisico, la società moderna, torrida, le sue periferie affollate, i suoi oscurati bassifondi: scovarne i demoni e conoscerne gli inferni.
Continuamente in bilico tra pietà e senso pratico, tra integrità morale e senso di colpa (tutti siamo colpevoli, vittime e complici dell'assassino); nell'ultimo grido del 'mostro', che si dimena in un acquitrino cosparso di candidi fiori come fosse dentro a una brace, c'è tutta la rabbia, e il dolore, dell'uomo di Kurosawa, incapace di comprendersi fino in fondo; e nel discorso finale la profonda umanità, e sofferta, e cinica constatazione, del grande autore giapponese.

4 risposte al commento
Ultima risposta 26/05/2010 18.57.01
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Gruppo REDAZIONE amterme63  @  13/02/2010 23:01:08
   8½ / 10
Altra piccola grande perla del primo Kurosawa.
Il messaggio del film anche in questo caso è il rapporto dialettico fra passione e controllo, fra impulso e raziocinio. Il punto di vista è come al solito quello umanissimo delle vicende difficili e sentite di comuni esseri umani. Lo sguardo anche stavolta è anticonvenzionale e va a frugare dove in genere nessuno andrebbe, cioè nei bassifondi, nella vita della gente povera e “normale” (trattata sempre con grande dignità ed empatia). La novità è che si cerca di riflettere, o meglio di far riflettere, sulla natura del crimine, se sia una scelta libera o obbligata e se in certi casi sia l’unica scelta possibile. Comunque pure al criminale, Kurosawa dà molta umanità e molta dignità. Quello che preme rappresentare non è la vicenda o l’azione violenta o eclatante ma quelle che coinvolge il destino delle persone (le catture, le lotte drammatiche).
Dal punto di vista formale, questo è il primo film in cui Kurosawa mostra la tendenza all’eclettismo, a utilizzare modi rappresentativi diversi e vari in uno stesso film. Molto proviene dal ricco giacimento del cinema muto.
“Cane Randagio” ricorda vagamente “Ladri di Biciclette”. L’oggetto del film è infatti il furto di una pistola. Pure i protagonisti si assomigliano, entrambi sono un po’ ingenui e “subiscono” gli avvenimenti. In questo caso però l’emergenza più che economica è etica.
Murakami, il protagonista (interpretato da un intenso Toshiro Mifune), rappresenta un po’ l’etica tradizionale giapponese, quella del samurai. Prende tutto di punta, in maniera coinvolgente e totale, è molto impulsivo e irruento, molto suscettibile e sensibile, tutto preso nella sua “missione” di poliziotto. Deve riparare in tutti i modi al furto, ne va del suo onore etico. Per questo si mette a cercare disperatamente la sua pistola. La sequenza della ricerca è una delle più belle del film. E’ una successione di immagini di angoli malfamati di Tokyo, di prostitute, di malfattori, ma anche immagini di mercati, negozi, gente di tutti i generi; poi giorno e notte che si succedono e su tutto in sovrimpressione gli occhi stralunati di Murakami o intensi primi piani della sua faccia tesa e disfatta.
Veramente, non esiste regista più bravo di Kurosawa nel suggerire il trascorrere del tempo e la fatica e la durezza di questo trascorrere.
Il tenore del film cambia quando entra in scena l’ispettore Sato (altra maiuscola interpretazione del grande Takashi Shimura). A differenza di Murakami, è distaccato dalle cose, interpreta, capisce, in pratica domina tutto dall’alto della sua esperienza. E’ la guida che ci voleva per Murakami. Adesso sa che deve imparare a controllarsi e a misurarsi. Intanto Kurosawa continua a mostrarci le immagini di un Giappone diviso fra divertimenti americaneggianti e la dura lotta quotidiana (la tessera per mangiare).
Ultima variazione del film è l’entrata in scena del criminale, cioè Yusa. Per questo personaggio Kurosawa utilizza la tecnica a testimonianza. Impariamo a conoscerlo attraverso gli altri e quindi siamo obbligati a utilizzare la nostra immaginazione, a elaborarlo nella nostra testa. E’ l’occasione per riflettere sull’origine e sul valore del crimine. Il criminale ha diritto alla comprensione e al rispetto umano, ma rimane comunque un danno per la collettività e va assolutamente neutralizzato. Il crimine è la via più facile e più corta per la sopravvivenza, ma non è l’unica e quindi la scelta non dipende solo dall’ambiente ma anche dalla volontà.
Ed ecco che nel finale Yusa si materializza. E’ come se l’era immaginato Murakami: un povero diavolo disperato e impulsivo, un cane randagio diventato rabbioso. L’inseguimento e la cattura sono un’altra perla visiva del film: fatica, paura, tensione e in più la suggestione dell’ambiente (il rotolarsi nel fango di una palude, nell’erba alta, in mezzo a dei fiori). Il dramma tocca l’apice nei due che giacciono accanto stanchissimi, distrutti, disfatti e con all’improvviso un urlo lancinante di dolore e disperazione estrema da parte di Yusa. Il dolore e la disperazione del “criminale” non potevano essere espressi meglio.
Sono rimasto molto colpito dalla scena. Che artista Kurosawa! I suoi film sono veramente belli.
Ah dimenticavo. Il vero protagonista del film è il caldo. E’ così opprimente e onnipresente in tutte le scene che si finisce davvero per sentirsi pure noi spettatori soffocati e vogliosi di qualche bibita fresca …

Gruppo COLLABORATORI SENIOR elio91  @  12/09/2009 10:42:30
   7 / 10
Premetto che è il primo film di Kurosawa che vedo ma non mi è dispiaciuto. Belle alcune tematiche come l'idea che siano i luoghi a rendere le persone crudeli e non le persone stesse ad esserlo,inoltre il film risulta interessante quando ci mostra il Giappone di quegli anni con l'attore protagonista molto bravi nella sua parte. Il finale è bello,specialmente

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Sulle musiche soprassediamo,veramente terribili,ma d'altronde parliamo del '49,orchestristi e compositori famosi sarebbero arrivati dopo. Un bel film che si lascia guardare,in definitiva,ma che a tratti non sembra aver resistito al passare degli anni. Bravissimo sempre Kurosawa ad introdurci tutti i personaggi facendoceli compatire per le scelte che hanno dovuto fare,sempre costretti a fare qualcosa quindi giustificandoli.

Invia una mail all'autore del commento wega  @  01/02/2008 19:17:40
   8 / 10
Buonissimo film di Kurosawa, dove viene scrutato a fondo un profondissimo rapporto professionale, ripreso poi in un certo senso in "Barbarossa", tra due poliziotti, interpretati dai suoi due attori preferiti, Mifune e Shimura. Rimandi di fastidio che ho già visto in altre pellicole del maestro giapponese, l'afa, il sudore, del resto "si trattava della giornata più calda dell'estate".

addicted  @  10/10/2007 16:32:00
   10 / 10
Straordinario capolavoro di Kurosawa.
E' un cinema potentissimo, che coinvolge, fa riflettere, stupisce e sperimenta.
Una serie di sequenze favolose che culmina in un finale indimenticabile.
Bello, bello, bello!!!

Beefheart  @  06/07/2007 16:00:24
   7 / 10
Niente male questo poliziesco drammatico, che oscilla tra le atmosfere noir dei più classici gangster-movie e lo sguardo, quasi neo-realista, sulla caotica realtà sociale nella Tokyo del dopoguerra. Questa volta Mifune è il giovane ed inesperto poliziotto Murakami, al quale viene rubata la pistola per utilizzarla in rapine e malefatte varie. Per recuperarla, il protagonista, ci impiegherà l'intero film, portandoci in giro per i bassifondi della città in cerca di prove, indizi e colpevoli. La storia, a dimostrarci che non scherza, non manca di quei risvolti drammatici ed intensi che conferiscono consistenza e, nonostante la morale un po forzosa secondo la quale non esistono buoni o cattivi ma solo uomini diversi con storie diverse, non manca di efficacia. Un film un po segnato dal tempo che fa sentire i suoi effetti sulla pellicola ed in alcuni dialoghi. L'interpretazione è all'altezza con un valido Toshiro Mifune che in alcuni momenti di particolare travaglio interiore e sgomento, può ricordare il Gregory Peck hitchcockiano di "Io ti salverò". Bravissimo anche Takashi Shimura nel ruolo del commissario Sato. Nel complesso un buon film. Consigliato.

Dick  @  01/07/2007 19:45:29
   8½ / 10
Film che parte come poliziesco per diventare poi una pellicola dai risvolti sociologici che segue la teorie secondo cui il poliziotto e il delinquente nascerebbero dallo stesso brodo, chiamiamolo così.

Gruppo COLLABORATORI SENIOR The Gaunt  @  28/04/2007 00:08:13
   9 / 10
Kurosawa usa questa trama poliziesca per rappresentare quello che era il Giappone di quegli anni, quasi come se fosse un affresco neorealista del suo paese. Da tener presente che in questa pellicola, come in altre, emerge uno dei temi più cari al regista giapponese: il rapporto mentore-allievo che si instaura fra i due poliziotti, perfettamente riuscito dalla coppia Mifune-Shimura.

Rusty il Selvag  @  04/03/2006 23:20:55
   10 / 10
La grandissima capacita' di caratterizzazione dei personaggi ,da parte di Kurosawa, permette allo spettatore di entrare in empatia con essi ,con la loro storia, i loro sentimenti, le loro speranze e paure.


nella fase centrale del film quando il poliziotto(il solito grande Toshiro Mifune)
gira per la città mimetizzandosi tra la folla dei sobborghi di una Tokio degradata,messa in ginocchio dalla guerra, noi siamo di fronte ad immagini,
nessun dialogo, ma quelle immagini valgono più di un' intera sceneggiatura.

nessun giudizio di valore solo comprensione storico-sociale-esistenziale

Anche l'assassino diventa vittima della storia, della società ,dell'esistenza
o forse solo del destino...



- Cosi' parlò Rusty il Selvaggio -

Crimson  @  30/11/2005 20:08:29
   8½ / 10
Segue di un solo anno "l'angelo ubriaco" e in parte ne ricalca le stesse atmosfere. La storia però è diversa: si tratta di un poliziesco che ha come protagonista una giovane recluta (Toshiro mifune), inesperta ma impavida, a cui ben presto viene affiancata la saggia presenza di un navigato ispettore (Takashi Shimura). La recluta perde la propria pistola d'ordinanza ma tramite la sua testardaggine riesce a scoprire un traffico di armi e un'omicida che per frustrazione uccide proprio con la stessa, e per questo si sente in colpa. Tra i due poliziotti nasce un'ottima intesa e soprattutto un legame che gioverà ad entrambi.
Si tratta di un poliziesco bellissimo, con scene che non scorderò mai (come quando la recluta in pochi secondi deve riconoscere l'assassino di cui non conosce il volto). Di fondo inoltre c'è ancora una volta il tema della devianza sociale in una storia che affonda le proprie radici in un contesto di difficile introspezione, nel Giappone del dopoguerra. Il film non pretende di dare una spiegazione del fenomeno dell'emarginazione ma si limita qua e là, tramite le parole dell'ispettore, a fornire una chiave di lettura.

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