Recensione quella sera dorata regia di James Ivory Gran Bretagna 2010
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Recensione quella sera dorata (2010)

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locandina del film QUELLA SERA DORATA

Immagine tratta dal film QUELLA SERA DORATA

Immagine tratta dal film QUELLA SERA DORATA

Immagine tratta dal film QUELLA SERA DORATA

Immagine tratta dal film QUELLA SERA DORATA

Immagine tratta dal film QUELLA SERA DORATA
 

James Ivory è un illustratore di qualità: un brillante calligrafo che realizza ottime trasposizioni di romanzi, avendo la rara capacità di saperne restituire, in modo non banalizzato, la ricchezza di suggestioni e contenuti.
La quasi totalità delle opere di Ivory sono adattamenti, i cui pregi maggiori stanno tanto nell'eleganza formale della regia, quanto nello spessore drammaturgico delle sceneggiature – firmate, tutte, dalla sua fidata collaboratrice Ruth Prawer Jhabvala. Sia la sceneggiatura, sia la discrezione della regia, sono al servizio della massima fedeltà allo spirito dell'opera letteraria.
La casa di produzione di Ivory, la Merchant Ivory Productions, ha realizzato negli anni raffinati adattamenti per il grande schermo di valide opere letterarie. Diverse in particolare le trasposizioni da E. M. Forster, tra cui "Camera con vista" (1986) e "Casa Howard" (1992), che sono tra le più celebri pellicole di Ivory insieme a "Quel che resta del giorno" (1993), tratto, quest'ultimo, da un romanzo del giapponese Kazuo Ishiguro.

Il suo ultimo film, distribuito in Italia con il titolo "Quella sera dorata", è tratto da un best seller del romanziere newyorkese Peter Cameron, "The city of your final destination". Lo stravolgimento del titolo è già nell'edizione italiana del romanzo. I responsabili della casa editrice Adelphi l'hanno estratto da una citazione che introduce la seconda parte del romanzo, a loro dire perché era difficilmente spendibile una traduzione del titolo originale, in quanto l'espressione "destinazione finale" produrrebbe nel lettore italiano inopportune associazioni con il tema della morte (che non è al centro dell'opera).
Fatto sta che adesso anche il film (il cui titolo originale pure è "The city of your final destination") si chiama "Quella sera dorata". Un titolo che – per quanto appaia in sintonia con quanto ci si può attendere da una pellicola di Ivory – non significa assolutamente nulla. Nel corso del film non si ha modo, pur con tutta la buona volontà, di individuare alcuna speciale "sera dorata".

Romanzo alla mano, comunque, si può proprio partire dalla citazione (integrale) che introduce la seconda parte, per avvicinarci al contenuto dell'opera.

"Quella sera dorata non volevo proprio andare oltre; più di ogni cosa volevo restare un po'..."
E. Bishop, Santarém

Questa citazione va compresa accostandola a quella che introduce la prima parte del romanzo:

"Siamo infelici perché non capiamo come l'infelicità possa finire, ma quello che davvero non capiamo è che non può durare, perché il suo protrarsi causerà un mutamento di umore. Nemmeno la felicità, per la stessa ragione, può durare"
(W. Gerhardie, Dell'amore mortale).

Se si raffrontano le due citazioni, scopriamo che esse contengono un indizio del tema portante del romanzo, così come del film: la lotta tra necessità di cambiare e desiderio di restare. Quale fra le due scelte ci renderà più felici?
Non è facile scoprire dove saremo più felici: se là dove siamo rimasti fermi sino ad oggi, in una situazione che inizialmente ci realizzava, o non piuttosto altrove, dove ancora non sappiamo potremmo essere destinati ad arrivare (ecco anche spiegarsi il titolo originale, con il suo riferimento a una destinazione finale).

Né Peter Cameron né Ivory propendono per una delle due soluzioni.
In "Quella sera dorata" abbiamo sei personaggi principali, quattro dei quali trovano una maggiore realizzazione in una destinazione di vita inaspettata rispetto ai loro progetti originali, mentre gli altri due dimostrano di avere raggiunto un appagamento immutabile e solido già da tempo.
L'intreccio si sviluppa attorno a un ricercatore universitario, Omar (che ha il volto asimmetrico di Omar Metwally), il quale – spinto dalla compagna – decide di raggiungere, in Uruguay, in una dimora collocata in una sua dimensione immobile e fuori dal tempo, gli eredi dello scrittore Jules Gund, di cui Omar vorrebbe stilare la biografia, per la sua tesi di dottorato.
L'iniziale riluttanza – per cui si rende necessaria l'istigazione della compagna, di carattere più risoluto (interpretata dall'attrice di origine rumena Alexandra Maria Lara, già vista in "Un'altra giovinezza" di F. F. Coppola) – dipende dal fatto che gli eredi dello scrittore gli hanno già scritto per lettera la loro contrarietà, che parrebbe non negoziabile.
Giunto in Uruguay, Omar troverà, riunita in quella dimora tagliata fuori dal mondo, una compagnia eclettica e bizzarra. Insieme all'orgogliosa vedova dello scrittore Jules (Caroline, interpretata da Laura Linney), convivono colei che è stata la giovane amante di Jules (Arden, interpretata da una Charlotte Gainsbourg sempre molto in parte), il fratello di Jules, Adam (un magnifico Anthony Hopkins), e il giovane amante giapponese di quest'ultimo.

Mentre la coppia costituita dai due uomini si dimostrerà, sino alla fine e malgrado alcune incertezze del giovane, solida e felice di restare dove si trova, tutti gli equilibri iniziali muteranno nel corso del film, con una progressiva gradualità interrotta verso la fine da accelerazioni improvvise ed ellissi risolutive.
Senza svelare la trama, diciamo che gli altri personaggi (Omar, la sua compagna, Laura e Arden) troveranno ciascuno un progetto e una destinazione finale (esistenziale, e non solamente geografica) ben diversi da quelle che aspettavano e si immaginavano.
L'arrivo di Omar in Uruguay rappresenta dunque l'evento, sofficemente destabilizzante, da cui una serie di equilibri sclerotizzati iniziano a mutare, intersecandosi secondo nuove traiettorie.
Interessante il fatto che l'inserimento di Omar nella comunità stantìa che vive nella dimora uruguagia sia anche una dimostrazione narrativa del principio di indeterminazione di Heisenberg (al cinema citato più volte dai fratelli Coen, in tutt'altra maniera): quando l'osservatore si accosta al fenomeno (in questo caso Omar, che giunge nella vita di coloro che sono stati legati allo scrittore di cui vuole scrivere la biografia, e che per questa ragione sarebbero tra le figure principali della biografia stessa), il fenomeno osservato viene turbato dalla presenza dell'osservatore, il quale, interagendo con esso, lo altera irrimediabilmente, rendendone indeducibili con esattezza le condizioni iniziali.

Ivory, uno degli ultimi grandi metteurs en scène

Le sceneggiature della Jhabvala (che a sua volta è anzitutto autrice di romanzi), così come il mestiere di Ivory, sono al servizio dell'opera letteraria.
Se si ha come riferimento le opere di Ivory è difficile sostenere il celebre adagio per cui da buoni romanzi discendono film mediocri, mentre solo da romanzi mediocri possono essere tratti buoni film (come sosteneva anche Kubrick). Il cinema di Ivory è la dimostrazione per cui da un buon romanzo può essere tratto un film altrettanto buono.

In genere è vero che, nel trasporre un romanzo in un film, il valore di quest'ultimo si individua a partire da quanto esso sia riuscito a "divenire altro", ossia un'opera indipendente rispetto alla materia romanzesca, materia fatta propria dall'autorialità del regista, che si servirebbe del testo di partenza come di un canovaccio su cui innestare la propria poetica e il proprio stile.
Ciò non vale per Ivory.
In Ivory, la poetica è connaturata alla letteratura che egli dimostra di amare, e lo stile sta anzitutto nello scrupoloso mestiere, da consumato artigiano del cinema, con cui sa restituire lo spirito dei romanzi che adatta. E' raro che un film riesca ad essere lo specchio fedele di un romanzo, senza perdere in qualità. Con Ivory succede. Egli ama le opere che adatta, e le rispetta fedelmente. E' la peculiarità del suo cinema.
Un cinema, il suo, profondamente classico sotto ogni punto di vista. Egli sembra rifiutare ogni tocco che aggiunga specifici elementi personali: a tal punto che il suo specifico tocco personale appare proprio quello di non avere vezzi o compiacimenti che non siano un'eleganza formale tenacemente perseguita.
Egli sa come girare bene, e nella sua dimestichezza con la macchina da presa e con gli attori sembra connaturata una scelta quasi di modestia. Come se il suo compito fosse quello di farsi da parte, rendersi invisibile. Ivory non si impone, ma ha un'abilità consumata a dirigere la vicenda e gli attori in modo che sembri che sia l'opera a imporsi da sola.
Il suo stile è talmente classico da sembrare "d'altri tempi", come per esempio nel rifiuto di quel tocco di modernismo che consiste nel chiudere le scene poco prima che esse raggiungano l'apice: come non disdegna di fare pure Clint Eastwood (cui la critica contemporanea ha consegnato, internazionalmente unanime, la fiaccola della classicità per eccellenza del cinema odierno).

E' inevitabile che un autore che si mette per così dire "al servizio" degli autori letterari, incorra in un'autolimitazione poetica. La carriera di Ivory è segnata dall'inibizione del suo potenziale spessore di autore: è lo scotto che paga un regista quando trasforma quasi integralmente la sua "arte" in quella della trasposizione (è in parte la stessa involuzione rappresentata della seconda fase della carriera di Luchino Visconti – il quale però mantenne una sua notevole incisività, da estenuato – e compiaciuto – decadente).
Volendo usare categorie oggi ritenute da alcuni desuete, e che eppure conservano – a parer nostro - la loro validità, Ivory più che "autore" è un regista di "mestiere"; più che un artista, è un artigiano. Più che un "auteur", è un metteur en scène di razza. Insieme a Eastwood, uno dei più bravi.
Ce ne fossero, di validi metteur en scène. La verità è che, nella smania che molti hanno di dimostrarsi autori, è un'abilità quasi perduta quella dei registi di mestiere al servizio della buona letteratura.
Questa valutazione di Ivory non vuole tradursi in un deprezzamento. Chi ama la settima arte non può prescindere dallo stimare anche chi sa fare del buon cinema partendo dall'amore per la letteratura, come Ivory.
Non dobbiamo chiedergli di estrinsecare per forza tutte le potenzialità artistiche del Cinema: è sempre un esercizio di pessima critica quello di pretendere che un regista sia ciò che non è.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 08/10/2010 14.43.00

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