Recensione le avventure di tintin: il segreto dell'unicorno regia di Steven Spielberg USA, Nuova Zelanda, Belgio 2011
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Recensione le avventure di tintin: il segreto dell'unicorno (2011)

Voto Visitatori:   6,90 / 10 (70 voti)6,90Grafico
Miglior film d'animazione
VINCITORE DI 1 PREMIO GOLDEN GLOBE:
Miglior film d'animazione
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locandina del film LE AVVENTURE DI TINTIN: IL SEGRETO DELL'UNICORNO

Immagine tratta dal film LE AVVENTURE DI TINTIN: IL SEGRETO DELL'UNICORNO

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"Le Avventure di Tintin - Il Segreto dell'Unicorno" è un film che solleva nello spettatore più accorto molti dubbi e lo obbliga sostanzialmente a considerare la propria opinione su vari aspetti della tecnica cinematografica contemporanea e dell'industria del film in generale, prima di emettere un giudizio.
Steven Spielberg, Peter Jackson, il 3D, l'animazione, la performance capture, l'opera originale di Hergè, i compromessi delle trasposizioni in film di opere concepite per altri media: solo una riflessione su ciascuno di questi aspetti, presi uno per uno, consente di formulare un giudizio su un film che nasce dalla loro convergenza e che offre un'occasione più unica che rara per analizzare lo stato del cinema di intrattenimento, in particolare quello americano. Anticipando la conclusione della nostra riflessione, "Le Avventure di Tintin" è un capolavoro mancato, perchè, sebbene quasi ineccepibile dal punto di vista tecnico, sostanzialmente non cerca la chiave per risuonare in tutte le fasce di pubblico.
E' un film per ragazzi: non per cinefili, non per spettatori occasionali, forse nemmeno (necessariamente) per fan del fumetto.

Andiamo in ordine cronologico: i fumetti di Hergè. Pubblicati tra il 1929 ed il 1986, i ventitré libri (più uno incompleto) di Tintin hanno venduto centinaia di milioni di copie e sono stati tradotti in decine di lingue, dando luogo a diverse trasposizioni radiofoniche, animate e cinematografiche prima di quella di Spielberg, oltre che a numerosi studi letterari e qualche polemica (sterile) sul presunto razzismo di Hergè per la sua rappresentazione spesso ingenua delle altre culture.

Poco prima di morire nel 1983, Hergè dichiarò che un solo regista poteva rendere giustizia a Tintin sul grande schermo, Steven Spielberg. Effettivamente, non esiste un regista più adatto di Spielberg - o meglio, dello Spielberg degli anni ottanta, per un adattamento fedele della sua opera. In un periodo storico caratterizzato da una povertà di idee senza precedenti, in cui adattamenti di libri, fumetti, vecchie serie tv e remake di film garantiscono agli studios ritorni multimilionari con il minimo sforzo creativo, non sorprende che tale sorte sia toccata anche a Tintin, benché, in questo caso, sarebbe errato non considerare la passione di Spielberg come motore principale dell'operazione.

E' noto che il regista americano non conoscesse Tintin, finché qualcuno gli fece notare i molti punti in comune tra Indiana Jones (che ha altri padri, soprattutto cinematografici) ed il giovane avventuriero di carta. Immediatamente conquistato dal mix di umorismo ed avventura delle storie di Hergè, Spielberg acquistò i diritti del'opera, anche se per anni il progetto non si è mai concretizzato.

Inizialmente Spielberg aveva optato per un adattamento live-action, e solo Milou (il cane di Tintin) doveva essere realizzato in CG dalla Weta di Peter Jackson. E' stato lo stesso Jackson, fan di Tintin e pioniere della performance capture (utilizzata sia per Gollum nella trilogia de "Il Signore degli Anelli" che per "King Kong") a suggerire che l'intero film fosse girato con questa tecnica.

Il dibattito su dove finisca la recitazione e dove inizi l'animazione è stato scatenato da James Cameron, che voleva la candidatura all'Oscar per Zoe Saldana (il cui personaggio in Avatar era completamente digitale).
La partecipazione dell'attore nel film d'animazione, fino a pochi anni fa limitata al doppiaggio, è stata ampliata grazie alla performance capture, che consente di basare movimenti ed espressioni di un personaggio digitale sulla recitazione dal vero. Quando un personaggio che necessita un'elaborazione digitale deve essere inserito in un contesto reale (come ad esempio ne "Il Signore degli Anelli" o ne "L'Alba del Pianeta delle Scimmie"), sicuramente la performance capture è un'arma vincente e più convincente del semplice trucco o della creazione completamente digitale del personaggio. Nel caso in cui la performance capture diventa la tecnica con cui girare l'intero film, la questione si fa più complessa e una scelta rispetto all'animazione tradizionale sembra meno convincente.
I risultati degli esperimenti di Robert Zemeckis di realizzare un intero film in performance capture ("Polar Express" e "Beowulf"), infatti, hanno evidenziato dei limiti espressivi tali da non convincere nè il pubblico, posto davanti a quella che sembra, a tutti gli effetti, animazione di media qualità se paragonata allo stato dell'arte delle opere di Pixar e DreamWorks, nè gli studios (la Disney ha cancellato il remake di "Yellow Submarine" dello stesso Zemeckis dopo i deludenti risultati di" Mars Needs Mom").

Nel frattempo, con "Avatar", James Cameron ha dimostrato che con il giusto budget e la giusta tecnologia tutti i limiti della performance capture (gli "occhi morti", la "uncanny valley") possono essere superati e che sistemi di regia virtuale e riprese in 3D possono dare vita ad un universo di un fotorealismo impressionante e limitato unicamente dalla fantasia degli artisti (per "Avatar", degli sceneggiatori).

Partendo dalla tecnologia messa a punto da Cameron per "Avatar", Spielberg e Jackson hanno deciso di collaborare al progetto Tintin: Jackson alla produzione e alla seconda unità, Spielberg alla regia, con la possibilità di scambiarsi i ruoli o girare a quattro mani per un eventuale sequel.

Il progetto è quello di realizzare una trilogia. La ricchezza del materiale di partenza e la possibilità di vedere due cineasti del genere all'opera sullo stesso materiale ci fa - per una volta - sospendere la condanna di questa antipatica prassi contemporanea di progettare saghe invece di film, anche perchè ciascun film di Tintin sarà basato a grandi linee su due volumi originali e pertanto risulterà autoconclusivo.

Dopo queste doverose premesse, che servono a circostanziare tutte le argomentazioni di questa recensione, veniamo a "Le Avventure di Tintin - Il Segreto dell'Unicorno". Il film è tratto dal dittico "Il segreto dell'Unicorno" (1943) - "ll tesoro di Rackham il Rosso" (1944) ed incorpora elementi di altre storie di Tin Tin: l'incontro con Haddock, ad esempio è tratto da "Il Granchio d'oro" (The Crab with the Golden Claws, 1941). Il film si apre con Tintin (Jamie Bell) che, dopo aver comprato in un mercatino il modellino di una nave, l'Unicorno, scopre di essere in serio pericolo: il modellino nasconde le tracce per arrivare ad un tesoro nascosto in fondo all'Oceano che fa gola all'amibiguo Sakharine (Daniel Craig). Fatto prigioniero, Tintin viene portato su una nave il cui equipaggio, vendutosi a Sacharine, si è ammutinato contro il capitano Haddock (Andy Serkis), prigioniero anch'egli sulla nave, discendente del leggendario capitano dell'Unicorno... è l'inizio di un'amicizia e di una fantastica avventura.

Durante la visione di Tintin non si può fare a meno di ammirare come Spielberg padroneggi i nuovi strumenti tecnologici come se fossero stati creati appositamente per lui. La mente torna spesso alla trilogia originale di Indiana Jones: la trama, le ambientazioni, i rapporti tra i personaggi - Spielberg non nega le affinità tra i due personaggi ed anzi le accentua (grazie anche alla musica di John Williams), puntando sull'intrattenimento ed alternando sapientemente azione e mistero (molto meglio di quanto accaduto per Indiana Jones IV). Completamente a proprio agio con l'animazione, Spielberg sfrutta al massimo la libertà offertagli da un mondo plasmato dalla sua creatività. Le sequenza di delirio di Haddock valgono da sole la visione del film: il deserto tramutato in oceano in tempesta o l'accampamento dei legionari che si trasforma in un galeone sotto attacco sono puro Spielberg, liberato da ogni limite dettato da impedimenti fisici e di scenografia.

Quello che può in effetti non convincere è tuttavia proprio la scelta della performance capture. Da un lato, l'alterazione digitale delle fattezze degli autori ha consentito di creare un character design prossimo a quello di Hergè ed un universo visivamente coerente, oltre ad un riuscito esperimento di fotorealismo fumettistico. Dall'altro non ci sorprenderemmo se i puristi si trovassero disorientati nel passaggio dallo stile pulito e lineare (la "ligne claire") dei fumetti ad un'animazione digitale e per di più stereoscopica. E' lo stato dell'arte della tecnologia, ma siamo sicuri che sia lo stile adatto per Tintin? I comics americani, che vedono alternarsi diversi artisti ai testi ed alle matite, hanno abituato i lettori a continue reinterpretazioni dei personaggi, sia grafiche che narrative.
La versione dal vivo dei film è solo l'ennesima variazione sul tema: è sufficiente pensare ai Batman di Christopher Nolan e Tim Burton, entrambi cinematograficamente perfetti, entrambi rispettosi dello spirito del personaggio, eppure praticamente antitetici. Per fumetti come Tintin (o Asterix, o i manga) la trasposizione è un lavoro più delicato: il caratteristico tratto di Hergè - al pari di quello di altri grandi fumettisti, da Charles Schulz a Frank Miller - è un tutt'uno con la sua opera, un aspetto imprescindibile dell'esperienza della lettura, un collegamento immediato all'idea di Tintin. Non esistono altre interpretazioni, ogni allontanamento, per quanto necessario, dalla forma originale è un'alterazione definitiva anche del contenuto.

Dal punto di vista strettamente tecnico, inoltre, il problema dei "dead eyes" non sembra essere stato del tutto risolto. Lo stile di Hergè ha aiutato a nascondere il problema per tutti i personaggi rimasti più fedeli allo stile originale (che prevede occhi molto piccoli, spesso dei semplici punti). Basta guardare Tintin, che è stato invece modificato consistentemente - forse per assomigliare il più possibile a Jamie Bell -per rendersi conto che qualcosa non torna. La stessa performance di Jamie Bell non sembra altrettanto convinta di quella, per esempio, di Andy Serkis ed i movimenti di Tintin risultano poco fluidi e innaturali in più di un'occasione. La faccia buffa di Tintin diventa una testa con una fronte ampia ed un viso piccolo, con occhi di ghiaccio (morti) dal taglio severo. Non proprio il massimo per generare un'immediata empatia.

Steven Spielberg e Peter Jackson si sono giocati le migliori carte a disposizione, operando scelte non semplici e tutte con eguali possibilità di successo e fallimento. La performance capture è l'esempio: un film di pura animazione che riprendesse la ligne claire, avrebbe avuto più o meno senso? Più o meno pubblico? E una trasposizione in live-action? Nessuna scelta sembra in teoria del tutto convincente (ed i precedenti adattamenti non sono utili in un confronto, viste le differenze di budget e di contesto storico e tecnologico) e questo fa comunque pensare in ultima analisi che l'adattamento di un'opera come Tintin, con una tale compenetrazione tra mezzo espressivo e contenuto, porti a tali e tanti compromessi che, sebbene mascherati dall'inerzia del risultato cinematografico medio dei blockbuster, non sarebbe affatto ingeneroso questionarne a priori la liceità.

Nel caso di Tintin, la collaborazione tra artisti del calibro di Spielberg e Jackson ha comunque fatto in modo che il risultato finale fosse, al netto di tutte le questioni meta-cinematografiche, un ottimo prodotto per ragazzi, un buon film ed un esempio di come si possano rispettare un'opera originale ed il suo autore pur adattando i contenuti e lo stile ad un altro pubblico ed un altro mezzo espressivo. Per manifesta volontà di Spielberg, c'è stata un'attenzione particolare nel mantenere l'umorismo di Hergè (molto fisico ed ingenuo) e non cedere alla tentazione di attualizzare il linguaggio (fa sorridere sentire Tintin esclamare "Sacripante!") o lo spirito dell'opera originale. Quanto si perde nella parte grafica, si mantiene in fase di caratterizzazione e sceneggiatura.
Tintin, Haddock, Dupond e Dupont (Nick Frost e Simon Pegg), Milou: i personaggi sono stati fedelmente adattati ed inseriti in una storia che ha il ritmo compassato dei fumetti, mascherato solo in parte dalla spettacolarità delle sequenze di azione.

Nell'adattamento italiano si distingue un riconoscibilissimo Francesco Pannofino nei panni -calzanti - di Haddock, che rende pienamente giustizia all'ennesima grande prova (di cui possiamo giudicare solo la parte fisica) di Andy Serkis. Meno convincente Jamie Bell, il cui personaggio è però afflitto dal problema dei dead eyes ed inoltre fatica a conquistarsi le simpatie del pubblico. Se nei fumetti Tintin è il punto di vista piuttosto didascalico su culture esotiche, misteri e esplorazioni, nel film la mancanza di un percorso interiore e l'assenza di una dimensione emotiva forte o una storia personale non solo lo pongono in secondo piano rispetto ad Haddock, ma lo rendono anche un protagonista molto poco interessante, un difetto di sceneggiatura che nessun film può permettersi, e ancor meno un film d'animazione, che richiede uno sforzo emotivo ulteriore da parte dello spettatore. La scena in cui Tintin si arrende e - di fatto - abbandona l'impresa risulta, in tal senso, illuminante. Sconfitto sul piano della ricerca, ma sano e salvo, può abbandonare un'impresa che non lo coinvolge emotivamente e non lo sfida più intellettualmente. Se il segreto dell'Unicorno non interessa a lui, perchè dovrebbe interessare al pubblico?

"Le Avventure di Tintin" arriva fuori tempo massimo - probabilmente - per i nostalgici di Indiana Jones e del cinema degli anni Ottanta ("Ritorno al Futuro", "I Goonies", ...), che potrebbero trovarlo derivativo e poco emozionante, ma è un film che cerca senza compromessi di risvegliare nelle nuove generazioni un sense of wonder assopito da tempo, anche a costo di lasciar fuori le altre categorie di pubblico, a partire dai nostalgici del genere e dagli appassionati del fumetto.
Dopo "Super 8", una declinazione decisamente cupa delle tematiche spielberghiane, va salutato con entusiasmo un altro convinto ritorno, stavolta per mano dello stesso Spielberg, dell'industria cinematografica mainstream ad un genere adulterato fin troppo nell'ultimo decennio da operazioni di marketing ad ampio raggio di cui il film era solo la punta dell'iceberg: si pensi ai troppi sequel de "I pirati dei Caraibi" o al progetto dei Marvel Studios, in parte anche alla saga di Harry Potter.

Lo spettatore accorto cui si faceva cenno uscirà dalla sala chiedendosi cosa ne pensa della performance capture e se questa sia una strada virtuosa per il cinema, archiviando velocemente "Le Avventure di Tintin" tra i film di intrattenimento di buona qualità (merce rara, sia chiaro). Gli altri, in base all'età e alla propria sensibilità, si divideranno in entusiasti e annoiati, a seconda di quanto Tintin e Haddock siano riusciti a convincerli.

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Recensione a cura di JackR - aggiornata al 22/11/2011 17.25.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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