Recensione crimini e misfatti regia di Woody Allen USA 1989
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Recensione crimini e misfatti (1989)

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Migliore sceneggiatura straniera
VINCITORE DI 1 PREMIO DAVID DI DONATELLO:
Migliore sceneggiatura straniera
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locandina del film CRIMINI E MISFATTI

Immagine tratta dal film CRIMINI E MISFATTI

Immagine tratta dal film CRIMINI E MISFATTI

Immagine tratta dal film CRIMINI E MISFATTI

Immagine tratta dal film CRIMINI E MISFATTI

Immagine tratta dal film CRIMINI E MISFATTI
 

Qual è il vero senso della vita?

Esiste un Dio che osserva e giudica i comportamenti degli uomini?

Basandosi su queste domande esistenziali Allen fonda Crimini e Misfatti.

E' un'opera matura e riflessiva che si differenzia dalle prime produzioni caratterizzate inizialmente da una comicità prettamente ad impatto visivo, sostituita poi da un umorismo più sottile e ricercato. E' un concentrato di pessimismo e desolazione dove tragedia e commedia sono sapientemente amalgamati. Il regista newyorkese affronta nuovi temi di riflessione, ispirati a romanzi dell'ottocento, quali l'omicidio, il senso di colpa, la pena.

E' stato candidato a tre oscar (regia, sceneggiatura e attore non protagonista Martin Landau) immeritatamente non assegnati e ha vinto un premio David di Donatello (miglior sceneggiatura straniera).

La risposta ai due quesiti però non può che essere soggettiva. Alcuni la trovano nella fede, creandosi così un'ancora di salvataggio alla quale possono tenere ben salda la loro esistenza. Altri invece, vedono la vita esattamente com'è, ovvero senza significato alcuno, un mero susseguirsi di atti mirati al raggiungimento di una felicità, la quale però non sembra affatto essere inclusa nel destino dell'uomo.

Nel film scorrono due storie ambientate nella malinconica New York, che si sviluppano parallelamente senza incontrarsi.

Judah Rosenthal (Martin Landau), è uno stimato oculista che dalla vita ha avuto tutto: famiglia, successo, denaro. Ha ricevuto un'educazione religiosa dal padre rabbino, ma crescendo è diventato un uomo di scienza, razionale e senza un credo, con una visione della vita spietata.
Egli decide di far uccidere l'amante Dolores (Anjelica Hudson) da un killer perché orrmai è diventata una donna troppo opprimente che minaccia di distruggere il suo castello di felicità, confessando alla moglie la loro relazione.

Judah però, non appena riceve la comunicazione dell'avvenuto omicidio, entra in una crisi profonda.

La storia richiama alla mente le vicissitudini affrontate dal giovane Raskolnikov in "Delitto e Castigo" quando, dopo l'assassinio della vecchia usuraia, si trova anch'egli preda di un profondo smarrimento e pensa: "Ma com'è possibile che sia già a questo punto? Possibile che sia già il castigo? Ma si, certo, è proprio così."

Allo stesso modo Judah si rende conto della mostruosità appena commessa. Il sacrificio di una vita umana spezzata con incredibile facilità, soltanto perché ormai diventata sconveniente.
Egli inizia così un percorso a ritroso nella sua infanzia: si ricorda degli insegnamenti religiosi ricevuti e rivede suo padre, il quale costantemente gli rammentava che gli occhi di Dio vedono tutto.

Una scena in particolare è molto importante. L'uomo, tornato in quella che era la sua casa da bambino, si ferma dietro la porta e assiste ad una scena rievocata dal passato: lui, da piccolo, seduto a tavola con la sua famiglia durante un pasto. Delicato omaggio a "Il posto delle fragole" di Bergman, regista amatissimo da Allen, nel quale il protagonista vive la stessa esperienza.

Judah si trova a credere che in realtà c'è un Dio che osserva e giudica l'operato degli uomini, il quale deve svolgersi secondo una morale che deriva essa stessa dal creatore. Immagina di essere presto scoperto e ormai preda dell'angoscia inizia a bere e a consumarsi nel senso di colpa.

Le medesime ossessioni che tormentano il giovane del romanzo russo ora opprimono l'uomo del film americano.

"Capisco quali sono i problemi che vi affliggono, problemi morali vero? I problemi del cittadino e dell'uomo?" scrive Dostoevskij.

Ma cos'è la morale?

Se la si identifica con la religione è quest'ultima a giustificare le azioni morali stesse nella prospettiva di una gratificazione o di una condanna divina. Ma si può anche scindere la morale come qualcosa di assolutamente indipendente dalla religione. E allora altro non è che un qualcosa di artificiale, che l'uomo può ricalcare in base alle proprie esigenze. La morale è manipolabile e del tutto personale. Agire moralmente significa quindi modulare i propri bisogni e le proprie azioni in relazione a quelle altrui.

Infatti il tempo passa, e Judah non viene punito, anzi prospera. La colpa ricade su un altro uomo con già numerosi omicidi a suo carico mentre lui è completamente libero. Allora si rende conto di riuscire a convivere con questo episodio della sua vita che è stato necessario a mantenerla stabile.

"Si tratta per così dire di una specie di teoria, come se io trovassi che il delitto è lecito se il movente è buono. Un solo male e centomila azioni buone." scrive ancora Dostoevskij.

E' la celebrazione del nichilismo. L'universo, moralmente neutro, è ignaro e noncurante dell'operato dei propri abitanti. L'uomo è solo, e soltanto a se stesso deve rendere conto, per cui se uccide riuscendo a convivere con il senso di colpa e a non farsi scoprire, è in una botte di ferro.

Martin Landau si cimenta in una splendida interpretazione, che avrebbe senz'altro meritato la statuetta. Anche Anjelica Hudson, con la sua breve interpretazione, è perfetta nel ruolo dell'amante morbosa e nevrotica.

Cliff Stern (Woody Allen) è un regista che non è riuscito ad avere successo, ha passato gli anni a montare servizi per i telegiornali e vanta come picco massimo della propria carriera il premio di riconoscimento al festival del documentario di Cincinnati. E' un sognatore continuamente alla ricerca del senso dell'esistenza, è inadatto alla vita e perennemente inadeguato. Il suo matrimonio è in piena crisi, così da completare il quadro del perfetto fallito.
Condivide con la nipotina la passione per i vecchi film, classici in bianco e nero, e non perde occasione per portarla al cinema, anziché farle svolgere la lezione.

Allen lancia così anche un'aperta critica al sistema scolastico: "La lezione di oggi è" dice Cliff alla nipote "non ascoltare quello che ti dicono gli insegnanti, guarda solamente come sono fatti, così capirai come sarà veramente la vita."

Un entusiasmo anima le sue giornate: la realizzazione di un documentario su Levy, un filosofo sopravvissuto alla guerra che inneggia alla vita e all'amore. Cercando di ottenere il denaro necessario per concretizzare il profilo del filosofo, Cliff si trova a lavorare per il detestato cognato Lester (Alan Ada), dovendone girare la biografia.
Lester è il suo perfetto opposto: un uomo privo di sensibilità, terribilmente vuoto, superficiale e inconsistente. E' un produttore che ha raggiunto il successo con banali opere commerciali, e per questo non perde occasione per palesare la propria superiorità.

Sul set Cliff conosce Halley (Mia Farrow), una interessante produttrice associata, della quale si innamora.
Adesso tutta la sua determinazione è indirizzata verso la conquista della donna, e verso la realizzazione del documentario. La vita per lui ha di nuovo acquisito un senso. Sarà felice solo se potrà stare al fianco di Halley.

Nonostante sia un uomo sposato, anche lui compie la sua piccola scelta morale e le dichiara il suo amore.

Dopotutto, come dice egli stesso nel film, "Non è facile mettere d'accordo cuore e cervello, i miei non si danno neanche del tu."

I suoi sogni però si frantumano velocemente.

La sua genuinità e la sua semplicità vengono sconfitte dal cognato egocentrico e pomposo. Halley infatti non soltanto non ricambia i suoi sentimenti, ma si fidanzerà con Lester.
Levy si suicida prima che sia stato girato il documentario lasciando soltanto una breve testimonianza: "Ci dobbiamo sempre ricordare che a noi, dopo la nostra nascita, è necessario tantissimo affetto al fine di persuaderci a rimanere in vita. Una volta ricevuto quell'affetto generalmente permane, ma l'universo è un luogo assolutamente freddo. Noi investiamo in esso i nostri sentimenti e in determinate condizioni sentiamo che il gioco non vale proprio la candela."

L'universo quindi è indifferente non solo verso il malvagio, ma non si cura nemmeno della felicità del buono. Siamo esseri assolutamente soli.

Queste amare conclusioni sono però attenuate da numerose battute e scene divertenti, come la biografia tutt'altro che commemorativa di Lester fatta da Cliff.

Allen e la Farrow sono semplicemente meravigliosi nei loro ruoli, come sempre del resto. La presenza di Woody dona al film il valore aggiunto di cui sono prive quelle pellicole nelle quali si limita a stare dietro alla macchina da presa.

Nel meraviglioso finale tutti i protagonisti si ritrovano in una stanza e le storie si incrociano. Il punto d'incontro è il matrimonio della figlia di Ben (Sam Waterstone), rabbino in cura da anni da Judah (per un grave problema alla vista) e secondo cognato di Cliff.

Judah si rivolge proprio a Ben prima di prendere l'infausta decisione di far uccidere Dolores. Gli confessa di aver instaurato un rapporto adultero e gli chiede consiglio su come fare per evitare l'imminente sciagura che sta per investirlo. Il rabbino consiglia a Judah di confessare tutto a sua moglie, precedendo così le intenzioni dell'amante. "Dove c'è amore c'è perdono" dice l'uomo di fede all'uomo di scienza. Judah però sente che la moglie non lo perdonerà, la sua visione dura della vita non gli permette di nutrire la stessa speranza che anima Ben, il quale invece troverebbe impossibile vivere senza credere in qualcosa.

Ben rappresenta il simbolo dell'indifferenza del cosmo, della solitudine dell'uomo, dell'inesistenza di una giustizia, di una morale che non è niente di concreto a cui attenersi. Insomma è il simbolo di un Dio che non vede, non a caso alla fine del film la sua malattia lo porta alla cecità.

Judah e Cliff si conoscono proprio grazie alla festa di matrimonio. Il primo racconta la propria storia personale come frutto dell'immaginazione, pensando al delitto perfetto. Cliff suggerisce che una confessione, proprio in virtù dell'assenza di Dio e quindi dell'assunzione delle proprie responsabilità, donerebbe un aspetto molto più tragico alla storia.

Ma quella di Judah è la realtà, una realtà nella quale le persone vanno a spasso con le proprie colpe. E' sufficiente saper razionalizzare i peccati per essere in grado di conviverci. Per il lieto fine a Cliff non resta altro che consolarsi con il cinema.

Le parole di conclusione sono però inaspettatamente cariche di speranza. Una speranza che viene riposta nelle generazioni future (rappresentate dalla nipotina di Cliff), con l'augurio che possano comprendere qualcosa in più; e nell'amore, la sola cosa in grado di dare veramente un senso all'indifferenza cosmica nella quale siamo immersi.

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Recensione a cura di jem. - aggiornata al 18/01/2011 11.38.00

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