In un'America sull'orlo del collasso, attraverso terre desolate e città distrutte dall’esplosione di una guerra civile, un gruppo di reporter intraprende un viaggio in condizioni estreme, mettendo a rischio le proprie vite per raccontare la verità.
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[possibili spoiler] Titolo e relativo hype fuorviante. Innanzitutto Civil War, sì, è un film con una notevole regia e un comparto tecnico di livello. Secondo, ciò che accade potrebbe accadere ovunque, non c'è posizione, rispetto a cosa o a chi, c'è una guerra civile e siamo negli States, il film registra, osserva, ma non a caso i nostri protagonisti soldati sono fotoreporter, pronti a immolarsi per uno scatto storico, epico. Nella civiltà dell'immagine il sottotesto di Garland fagocita l'intero macrotesto del film e se resterete nei titoli di coda prendera forma nel suo compimento l'immagine più altamente simbolica e beffarda. Guerra di civiltà più che guerra civile, una civiltà in crisi in cui gli scatti dei media sono più pesanti precisi e indifferenti alla vita umana (morta o che sta morendo, live) dei proiettili sparati, per Garland non sono i proiettili importanti ma ciò che viene o può essere rappresentato, che sovrasta le questioni militari che vengono totalmente sopraffatte da selfie di morte, e qui Kirsten Dunst e i suoi due colleghi sono due facce opposte della medaglia, mentre vediamo Kirsten avanzare in lacrime isteriche alla controparte interessa avanzare e con lo scatto suicida in favore di tiro, per farci elaborare l'escamotage Garland usa il bianco e nero e il colore, la caduta della civiltà comporta il desaturamento dei valori fondanti e quindi anche del colore. E se la guerra non ci spaventa più l'orrore sta nell'immagine di essa più che nella guerra stessa, e per farci capire chi siamo diventati basta scorrere i nostri rullini.