vanilla sky (2001)

Ora, io non ho visto l’originale di Amenabar e non so se la sceneggiatura di Vanilla Sky ne sia una fedele riproposizione, ma è certo che Cameron Crowe non sia David Lynch, e non possa aspirare a diventarlo.
Strapazzando una serie di canzoni una più bella dell’altra, le scene del film si inanellano una a una in maniera sempre più confusa, tanto che alla fine abbiamo bisogno dell’intervento di un deus ex machina (piuttosto bruttino, anche) appostato sul tetto di un grattacielo per dipanare una matassa che definire ingarbugliata è un complimento. Perché è vero che una trama che lascia un velo (o anche un bel drappo) di mistero e di indefinito molte volte è un’arma vincente… ma non per Vanilla Sky. La spiegazione del tutto è persino ridicola, forse ancora di più della faccia di gomma dell’immarcescibile Tom (e non sto parlando della maschera postoperatoria, beninteso) paralizzata nel sorriso irritante quanto inutile con il quale condisce battute degne di un bignami di filosofia letto al contrario. Vogliamo parlare di quella perla che è “te lo dirò in un’altra vita, quando entrambi saremo gatti”…? C’entra il buddismo o un errore di traduzione?
Insomma, due ore inutili imbastite per snocciolare una morale di una banalità imbarazzante: i soldi (e la bellezza) non fanno la felicità.
Avrei fatto meglio a leggere un libro di proverbi.