the tree of life regia di Terrence Malick USA 2011
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the tree of life (2011)

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locandina del film THE TREE OF LIFE

Titolo Originale: THE TREE OF LIFE

RegiaTerrence Malick

InterpretiSean Penn, Brad Pitt, Joanna Going, Fiona Shaw, Tom Townsend, Jessica Chastain, Jackson Hurst, Crystal Mantecon, Lisa Marie Newmyer, Pell James, Tamara Jolaine, Jennifer Sipes, Will Wallace

Durata: h 2.19
NazionalitàUSA 2011
Generedrammatico
Al cinema nel Maggio 2011

•  Altri film di Terrence Malick

Trama del film The tree of life

E' la storia di una famiglia del Midwest negli anni cinquanta attraverso lo sguardo del figlio maggiore, Jack, nel suo viaggio personale dall'innocenza dell'infanzia alle disillusioni dell'età adulta in cui cerca di tirare le somme di un rapporto conflittuale con il padre (Brad Pitt). Jack - che da adulto è interpretato da Sean Penn - si sente come un'anima perduta nel mondo moderno che vaga nel tentativo di trovare delle risposte alle origini e al significato della vita, tanto da mettere in discussione anche la sua fede.

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Voto Visitatori:   6,90 / 10 (168 voti)6,90Grafico
Palma d'oro
VINCITORE DI 1 PREMIO AL FESTIVAL DI CANNES:
Palma d'oro
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Voti e commenti su The tree of life, 168 opinioni inserite

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Gruppo COLLABORATORI JUNIOR Invia una mail all'autore del commento LukeMC67  @  29/05/2011 15:37:48
   7½ / 10
Grandissimo, profondissimo, ipnotico, ultrasuggestivo (e suggestionante) film, meritata Palma d'Oro a Cannes, ma non -a mio giudizio- un capolavoro.
Una nota di merito a Brad Pitt che ci ha messo corpo, faccia e soldi producendo questo non facile "The Tree of Life"; altra nota di merito a Sean Penn che spesso mette a disposizione la propria professionalità al cinema indipendente americano accettando cachet ben al di sotto di quelli hollywoodiani: da due artisti notoriamente "democrat-progressisti", molto impegnati sul fronte sociale e artistico, non ci si poteva che aspettare questo.

A mio modo di vedere, questo è un film sulla necessità di riconciliarsi con la propria storia di vita attraverso l'ineluttabilità del perdono. Tutta la "confezione" del film nonché l'esplicito, costante riferimento alla vicenda biblica di Giobbe, ci offrono un taglio innegabilmente "religioso": la stupenda visione finale della riconciliazione-incontro in una sorta di non-luogo paradisiaco commentata da un eloquente "Agnus Dei" da brivido, mi confermano ulteriormente in questa lettura.
La cosa interessante, però, è che questo perdono è l'atto più "contronatura" che esista (rispetto alla sete di vendetta, per esempio) ma è l'unico che possa consolare realmente l'Essere Umano di fronte all'ineluttabilità del dolore che contraddistingue la sua storia e la storia di tutto il Creato. In questo senso, mi sembra un film molto leopardiano, anche se più che una natura "cattiva e selvaggia", Malick ci mostri una Natura semplicemente indifferente e ineluttabile, che tutto crea e distrugge per poter poi ricreare a piacimento. A poco servono le nostre timide preghiere, i nostri irrisolvibili interrogativi esistenziali, la nostra acuta osservazione di ciò che ci circonda: tutto sarà ingoiato nel sempiterno circuito di distruzione-trasformazione-creazione-deterioramento-nuova distruzione e nuova trasformazione-creazione...
A questo noi, piccoli umani, possiamo contrapporre solo le nostre credenze, le nostre fragili fedi, il nostro sogno di poter riabbracciare per sempre chi ci ha lasciato in un luogo indefinito che non contempli più il terribile meccanismo quantistico della mutazione materiale.

Un nuovo "2001" allora? No, purtroppo. Perché la pellicola di Malick pecca proprio su questo versante non riuscendo a universalizzare il discorso sul dolore: partendo da uno dei peggiori eventi che possano capitare a un essere umano (la perdita di uno dei propri figli), Malick si butta troppo presto a capofitto in un caleidoscopio di immagini straordinarie che vorrebbero simboleggiare il flusso di coscienza innescato dal dolore stesso, lo vorrebbero universalizzare e contemporaneamente relativizzare. Il problema è che la vicenda rimane però troppo legata a "quel" dolore specifico, vissuto da "quella" famiglia, che vive in "quel" luogo (gli Stati Uniti), in "quella" epoca (gli anni Cinquanta-Sessanta), con "quei" protagonisti dalle caratteristiche estremamente caratterizzate. L'oggettivizzazione anarchica che Malick ci mostra mirabilmente attraverso sequenze da antologia del cinema, resta però inesorabilmente fuori contesto e purtroppo il commento in sala di molti spettatori me lo ha confermato: diverse persone hanno detto di aver riconosciuto immagini da "Quark" o da "National Geographic"... il peggio che si potesse udire!
Preso dall'impeto visionario, poi, Malick ha sontuosamente affidato il commento musicale di quelle sequenze a brani classicheggianti e solenni (autore: Alexandre Desplat, uno dei più grandi compositori viventi) che mi hanno però restituito un effetto di disagevole ridondanza: a differenza di Kubrick, Malick non ha impiegato in modo "eversivo" le musiche che ha scelto e, soprattutto, non ha osato il silenzio o il semplice commento naturale del "rumore della natura" ottenendo un (involontario?) effetto barocco che mi ha lasciato alquanto perplesso.

Tale perlessità è cresciuta rispetto a quello che secondo me è invece il tema centrale e magistralmente sviluppato dal film: il dolore di crescere vissuto da un uomo che rivisita il suo passato di infante e di adolescente. Un intensissimo, tormentatissimo Sean Penn (comparirà pure poche volte, ma "buca" davvero lo schermo!) rivive come un flusso di coscienza tutta la sua vicenda familiare prima di arrivare alla riconciliazione con se stesso, col padre e coi fratelli.
Il suo è un percorso tutto interiore (al quale il regista aderisce, evidentemente) e tutto rivolto alla "sua" storia; certo, con inevitabili interrogativi esistenziali universali, ma pur sempre "proprio". Ed è proprio affidandosi alla virtuosistica fotografia di un immenso Emmanuel Lubezki (interi piani-sequenza con steadycam, ottiche grandangolari ultradeformanti, prospettive vertiginose dal basso verso l'alto che amplificano il senso di maestosità dell'ambiente "rimpicciolendo" il protagonista umano di cui si suppone sia lo sguardo) che Malick segue e ci restituisce tutto il dramma e il patire della crescita. I bravissimi ragazzini protagonisti hanno sempre la cinepresa spietatamente addosso, sembriamo poterli toccare dallo schermo; i loro turbamenti diventano i nostri, le loro crudeltà le nostre, la loro vitalità pure. L'irrompere della morte è per loro un inspegabile incidente -e tale rimarrà anche per lo spaesatissimo Sean Penn adulto almeno finché non ripercorrerà la sua vicenda- e solo da adulti cominceranno a chiedersene il perché e a comprendere i profondi turbamenti dei loro genitori fino alla riconciliazione catartica finale. Come dire: solo assumendo il dolore della perdita su di sé è possibile diventare adulti e uscire definitivamente dal ruolo di figli per riconciliarsi coi propri genitori.
Sui quali va fatto un discorso a parte.

L'altro tema del film è, infatti, il perché del male e del dolore. Ma soprattutto del perché il male e il dolore colpiscono anche "l'uomo giusto". E' una tematica tipicamente ebraica e calvinista, due visioni che hanno in comune il correlare la propria condotta con il "premio divino". In realtà a me è venuto in mente un altro passo biblico, quando Dio parla di come rovescerà potenti e superbi: il personaggio del padre dipinto da Sean Penn adulto-Malick è il prototipo del padre ideale: bello, giovane, forte, integrato, "a posto", moralmente ineccepibile, fervente religioso, autoritario ma capace di gesti d'amore e di prossimità fisica e sentimentale ineguagliabili. Un essere perfetto, come solo un figlio devoto o succube possono dipingere. E' il protagonista adulto ad accostare quel padre a Giobbe (e la madre a una sorta di ******* da iconoclasta Sacra Famiglia) e a viverlo dapprima come una consolazione e poi come un ingombro insopportabile. A questa persona così piena di sé e dei suoi inflessibili princìpi morali (tanto piena da non ascoltare neanche la predica del prete sull'ineluttabilità del dolore e che si rivolgerà sempre a un Dio sordo quando in realtà è lui a essere muto), Dio (o la Natura) rovesciano tutti i dolori possibili forse dandogli la possibilità di "tornare a strisciare sulla terra" per comprendere i veri valori della vita (in poche sequenze passa dall'autoincensarsi per aver viaggiato in tutto il mondo ai dubbi sul suo ruolo nell'importante ditta per la quale lavora, fino alla confessione di aver saputo solo generare quei figli che sono l'unica sua vera ragion d'essere). Ma Dio non gli restituisce nulla (come invece accade a Giobbe alla fine dalla sua vita) se non la nuova consapevolezza del figlio superstite che si riconcilia pienamente con la sua famiglia dopo aver attraversato tutto il dolore della sua esistenza. Solo allora potrà vedere con altri occhi il padre e riabbracciarlo come bambino e come adulto (sempre magnifica la potentissima visione finale sulla spiaggia).
Curioso invece che la madre non subisca praticamente alcuna mutazione nella sua percezione se non quella di comprendere -prima a sprazzi e poi compiutamente- la capacità di sopportazione e di rielaborazione dei dolori a cui è stata sottoposta nella sua apparentemente dorata vita.

Depurato dunque dalle pretenziosità universalistiche simil-new age (con tanto di visione preistorica!), l'opera di Malick diventa un potentissimo affresco suggestivo sul dolore di crescere e di esistere da adolescenti, sull'ambiguità di una Natura ineluttabile e di un (possibile) Creatore che comunque "ha fatto cosa buona" pur restando dietro le quinte della sua stessa Creazione, sulla lancinante pena di diventare adulti perdendo ogni sicurezza e affacciandoci sul precipizio della morte che ci attende tutti ingoiando tutto quel che abbiamo fatto con immane fatica.


P.S.: Consiglio spassionato agli abituali frequentatori di multisale: lasciate perdere questo film, non sprecate i vostri soldi: vi annoiereste e basta, infastidendo quelli che invece accetteranno il gioco visionario e anarchico di Malick. Grazie.

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Ultima risposta 01/06/2011 01.15.57
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