the act of killing - l'atto di uccidere regia di Joshua Oppenheimer, Christine Cynn Danimarca, Norvegia, Gran Bretagna 2012
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the act of killing - l'atto di uccidere (2012)

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locandina del film THE ACT OF KILLING - L'ATTO DI UCCIDERE

Titolo Originale: THE ACT OF KILLING

RegiaJoshua Oppenheimer, Christine Cynn

InterpretiHaji Anif, Syamsul Arifin, Sakhyan Asmara, Anwar Congo, Jusuf Kalla, Herman Koto, Haji Marzuki, Safit Pardede, Ibrahim Sinik, Soaduon Siregar

Durata: h 1.55
NazionalitàDanimarca, Norvegia, Gran Bretagna 2012
Generedocumentario
Al cinema nell'Ottobre 2013

•  Altri film di Joshua Oppenheimer
•  Altri film di Christine Cynn

Trama del film The act of killing - l'atto di uccidere

Indonesia: alcuni ex membri degli squadroni della morte, che hanno terrorizzato il paese, accettano di ricostruire i propri crimini, mettendoli in scena nello stile dei film d'azione americani. Il risultato è un surreale viaggio nella storia recente di un paese contrassegnato dalla violenza, e nei ricordi degli autori materiali di quest'ultima.

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Voto Visitatori:   8,86 / 10 (11 voti)8,86Grafico
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Voti e commenti su The act of killing - l'atto di uccidere, 11 opinioni inserite

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  Pagina di 1  

Oskarsson88  @  04/04/2024 21:33:11
   8 / 10
Non ho potuto non pensare ad un altro documentario (El sicario - Room 164) dove anche lì colui che perpetua la morte, appunto il sicario, mostra con calma e lucidità i modi in cui uccideva le persone. The act of killing è un documentario decisamente raccapricciante, forse ancora di più, in quanto i protagonisti sono celebrati e pure molto fieri delle loro azioni (gangster = free man). Lascia senza parole e racconta un pezzo di storia indonesiana (ma non solo) tramite il racconto dei carnefici...

alex94  @  29/02/2024 16:11:16
   9 / 10
Il racconto di un massacro dimenticato e cioè dell' uccisione di un milione ( o più) di comunisti ( veri o presunti) indonesiani effettuato attraverso l'utilizzo di gruppi paramilitari e di gangster locali.
Potentissimo il modo in cui gli eventi vengono narrati e cioè con gli aguzzini che raccontano e mettono in scena le loro atroci gesta ( stanno girando una pellicola propagandistica) passando da interpretare se stessi a vestire i panni delle loro vittime.
Un vero e proprio pugno nello stomaco,un viaggio nella crudeltà umana,da vedere rigorosamente in versione integrale.

benzo24  @  23/12/2019 17:59:45
   5½ / 10
Il punto forte di questo film è che trasforma il vero in falso, e il falso in ancora più falso, come se non si riuscisse ad andare oltre la fiction, la finzione, intrappolati nell'intrattenimento che così testimonia uno dei pentimenti più fasulla della storia del cinema. Però il film si perde troppo in una lunghezza esagerata che toglie così al messaggio il potenziale comunicativo

impanicato  @  25/02/2015 16:48:25
   8½ / 10
Nonostante io sia un appassionato di storia, ero all'oscuro di quanto avvenuto in Indonesia tra il 1965 e il 1966. Lí é avvenuto uno degli atti di violenza peggiori della storia contemporanea, l'uccisione di circa mezzo milione di persone per il fatto di essere etichettati come "comunisti", termine che comprendeva principalmente persone di etnia cinese, ma che comprendeva in generale chi andava contro il governo. La cosa peggiore é che probabilmente tutto ció é passato sotto traccia e che nessuno abbia preso provvedimenti.
Ma la particolaritá di questo docu-film sta nel fatto che le vicende di quei terribili anni non vengono raccontate dai superstiti o da estranei ai fatti, ma dai carnefici. Ritengo che faccia venire i brividi una cosa del genere. E' come se Hitler parlasse davanti ad una telecamera di come funzionassero i campi di concentramento e le camere a gas, tutto questo con il sorriso. Qui invece le star sono due attempati gangster che durante il colpo di stato ebbero un ruolo rilevante nella strage. Questi due uomini parlano tranquillamente del loro passato ironicamente, come se uccidere non fosse importante e descrivono nei minimi particolare gli omicidi e le torture che li hanno resi celebritá nel loro paese.
Fa specie come la loro vita sia stata influenzata davvero tanto dall'occidente, sia nella politica (l'odio contro i comunisti), sia nei modi di fare (il principale gangster si vantava degli abiti che andavano ai tempi) che nella vita di tutti i giorni (le loro azioni erano ispirate dalla visione dei film americani che venivano trasmessi ai tempi). Particolare é come a tutti piaccia la definizione di "gangster" perché significa uomo libero e loro, da uomini liberi, arrivano per liberare la loro terra dal male.
Dai loro dettagli si possono trarre tante conclusioni: l'Indonesia é uno dei paesi meno democraticizzati del globo in cui ancora oggi i gruppi paramilitari fanno ció che vogliono: comprano i voti, violentano donne, arrestano chi vogliono. Non ci sará mai qualcuno che li possa arrestare, sono loro la legge.
E se dopo questo documentario gli "attori" venissero convocati a L'Aia per le violenze che hanno distribuito nel corso della loro vita? Non c'é problema, andrebbero correndo perché ció li renderebbe famosi in tutto il mondo. Sarebbe una soddisfazione.
Molto potenti alcune scene: quella della tortura a Congo, il principale gangster, in cui lo stesso sente come se stesse per morire, si sente male e deve smettere di recitare per riprendersi un po', forse capendo cosa ha fatto provare alle sue vittime e per cui dice di avere strani incubi la notte; altra scena che rimane impressa é quella del finto attacco al villaggio che, anche quando finisce, tramortisce tutte le donne ed i bambini che piangono e si lamentano per lungo tempo. Particolari anche le scene ambientate in riva al fiume dove alcune donne eseguono dei balletti particolari che mettono in risalto un lavoro fotografico eccellente.
Nonostante il documentario non sia il mio genere preferito, questo mi ha colpito positivamente e non capisco come non sia riuscito a vincere l'Oscar. Lo consiglio vivamente, ma non nella versione che ho visto io (piú lunga di quasi 50 minuti) poiché la tensione viene spezzettata da intermezzi da commedia quasi comici.

Invia una mail all'autore del commento luca986  @  08/02/2015 16:28:57
   8 / 10
È vero, questo è un grande film. Documentario da manuale, senza inopportune voci fuori campo: raccontano le immagini e i protagonisti del passato coinvolti nella catarsi del presente. Mezzo voto in più per l'originalità. Ho visto la versione director's cut. Consigliato.

_Hollow_  @  24/10/2014 04:21:15
   10 / 10
Ci sarebbero molte cose da dire riguardo "The Act of Killing".
Innanzitutto premetto di non aver visto il documentario originale da 1 ora e 55 minuti come riportato in scheda ma la Director's Cut da 2:40h.
Proprio per questo, nella ricerca di un giudizio numerico, si trova qualche difficoltà (la versione integrale è molto più dispersiva e alterna elementi perfetti ad altri un po' più discutibili). Banalità del male (alla Hannah Arendt); influenza occidentale non solo politica (la caccia ai rossi) ma pure culturale e ideologica (i film hollywoodiani); essenza della politica e dei politic(ant)i; consumismo; temi che vengono inframezzati da manie verso il sesso, verso i denti; egocentrismo e manie di grandezza; squallore, gusto per il volgare e coreografie assurde che ricordano il cinema giapponese, Kitano e il teatro Kabuki.

Come detto, si potrebbe parlare di moltissime cose, soprattutto riguardo i protagonisti. Esaltare moltissime scene. Ma quello che m'ha spinto a convincermi della perfezione di un'opera simile è il finale. Il finale è totalmente emblematico. Un vecchio assassino, alla sua peggiore (e ce ne vuole) prova da attore, che tenta di far salire un vomito che non ha nessunissima intenzione di venir fuori. Nel frattempo cani abbaiano in lontananza, a rendere ancora più unica e desolata la scena, che si protrae per delle squallidissime scale. Il trionfo di John Cage.

Come racchiudere in un film, pensando rispettivamente a vittime e carnefici, tutto il valore e al tempo stesso la fragilità e pochezza della vita (umana).

Concluderei così, mi sembra adatto: "La vita non è che un'ombra in cammino; un povero attore che s'agita e pavoneggia per un'ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, e senza alcun significato".

Gruppo COLLABORATORI JUNIOR rain  @  03/09/2014 20:21:13
   10 / 10
Eccezionale documento a testimonianza della crudeltà umana!
Due ore e mezza di confessioni da parte di due carnefici del regime indonesiano, confessioni di morte e violenza a cui è quasi difficile credere visti i fragili involucri di esseri umani in età avanzata che però racchiudono anime nere, che non hanno vergogna (ma vanità quella sì) nel raccontare i crimini contro l'umanità perpetrati da loro stessi ormai sessant'anni fa. Ciò che fa gelare il sangue nelle vene è la mancanza di pentimento da parte dei boia, qualche piccolo scrupolo sembra venire a galla ogni tanto, ma è poca cosa di fronte alle mostruosità commesse e messe in scena per il gusto dello spettacolo e per mostrare al Mondo ciò che hanno fatto convinti tutt'ora che quella fosse la cosa giusta da fare. E ancor più agghiacciante è la visione della "star" Anwar Congo: quando si parla di spietati assassini ci si aspetta sempre di vedere, e non so perchè, qualcosa di fuori dall'ordinario, un qualcuno che porti le stigmate del mostro sanguinario, invece ci si ritrova davanti questo vecchietto che incontrandolo per strada scambieresti per un simpatico nonno di famiglia (che in realtà è cosa ovvia, sarà anche brutto da dire ma il male è una delle cose più banali, "normali" e quotidiane che ci siano, fa parte della natura umana; quella di "The Act of Killing" è una delle sue manifestazioni più violente, ma nel nostro piccolo lo vediamo anche nella realtà di ogni giorno).
Ci si chiede spesso fin dove può arrivare la crudeltà umana, "The Act of Killing" ci da una risposta, ci dice che può arrivare molto lontano...

Gruppo COLLABORATORI SENIOR The Gaunt  @  08/08/2014 00:13:38
   10 / 10
Penso di aver assistito ad un capolavoro. E' il classico esempio di come a volte il potere della parola legato al ricordo possa essere altrettanto evocativo quasi come vedere gli avvenimenti descritti. Perchè non sono avvenimenti usuali da raccontare, se non altro perchè le scene dei massacri e delle torture del colpo di stato in Indonesia negli anni sessanta non vengono raccontati dalle vittime, bensì dai loro carnefici e torturatori. Senza un briciolo di pentimento e di rimorso rievocano episodi oscuri della dittatura, la paura del pericolo comunista che in realtà copriva una costellazione variegata di oppositori da sterminare. I carnefici sono ancora lì con i loro racconti, rispettati ed idolatrati come degli eroi. Non hanno rimorsi perchè ciò che hanno fatto era un dovere richiesto dal governo, ciò che facevano era giusto ed agendo come unità di paramilitari simili a squadroni della morte uccidevano tutti coloro che erano in odore di opposizione (surreale tutta la sequenza alla televiosne nazionale, un po' come se alla Tv nazionale tedesca si facesse apologia nei confronti Himmler o Mengele per Auschwitz). Viene naturale pensare alla Banalità del Male della Arendt, ma questo documentario, anche se improprio definirlo come tale, rischia e va oltre addentrandosi nel metacinema, cioé attraverso la rappresentazione delle loro gesta dirette ed intepretate da loro stessi. Il cinema era stato una sorta di ispirazione non solo nel loro quotidiano (vendevano biglietti al cinema) ma anche nel modo di fare e pensare ispirato alle pellicole che vedevano. Nella rappresentazione di finzione (basato dal vero) il cinema con i suoi generi entra in maniera prepotente, distorcendo o caricando ma mantenendo quell'atto di uccidere che rappresenta l'essenza degli avvenimenti. E' come un gioco, ma dall'esito tragico perchè operando il ribaltamento dei ruoli, da carnefici a vittime, si ha la tragicità della visuale opposta e malgrado la consapevolezza della finzione, percepiscono chiaramente il disagio ed il terrore della situazione originale dove non c'era finzione o "cut". Un disagio che forse fa intravedere un barlume di un qualcosa chiamata coscienza.

Invia una mail all'autore del commento Suskis  @  07/02/2014 09:04:02
   9½ / 10
Gli aspetti di questo film sono davvero tanti ed offrono una serie di riflessioni non banali. Si parte da un documentario unico sugli eccidi in Indonesia di 60 anni fa mostrati dalla parte di chi li ha compiuti, restando fino ad oggi un eroe nazionale. La politica, tutt'ora complice di questo genocidio, mostra un livello impressionante di corruzione e di capacità di manipolazione e oppressione della popolazione (e la lista infinita di coloro che hanno girato il film ma che sono rimasti anonimi lo testimonia). Ma è con la coppia dei due carnefici protagonisti (una specie di Laurel & Hardy infernali) che lo spettatore rimane incredulo, colpito dalla realtà della natura umana (vero tema del film). Le sfaccettature di questi mostri, tanto umani quanto disumani, li fanno sembrare usciti da una pellicola di Lynch. Nella loro ignorante vanità totale, alla ricerca mai terminata di un'autoassoluzione impossibile, mostrano la banalità del loro essere persone (eroi nazionali, uomini liberi, "eleganti" attori di cinema, nonni premurosi, stanchi vecchi forse pentiti o forse no).

Gruppo COLLABORATORI JUNIOR oh dae-soo  @  24/01/2014 17:10:22
   9 / 10
Impressionante.
Credo che il mio essere un ingenuotto politico, un verginello, uno che non si è mai schierato, mai interessato e mai fatto rovinare il sangue con quella cosa terribile e magnifica che è la politica, credo che stavolta essere quello che sono mi abbia aiutato a vedere questo film. Perchè approcciarsi a The Act of Killing con occhio politico può distogliere da quella che è la sua essenza.
Sarò retorico ma un massacro è un massacro, un eccidio è un eccidio, la mano che spara, strozza, taglia è la mano di un uomo in ogni caso, così come un uomo è la vittima. Uomini che uccidono senza pietà altri uomini, in nome di politica o entità trascendentali è lo stesso. Non ci interessa chi a chi, o almeno non a me, quelle sono analisi storico politiche che lascio ai competenti. A me rimane il film, e mi avanza pure.
Nella seconda metà degli anni 60 l'esercito indonesiano massacra tutti i seguaci, o presunti tali, del Partito Comunista Indonesiano, rei (?) di aver tentato un colpo di stato.
Tutti vengono fatti fuori, comunisti, cinesi, oppositori. Forse 2 milioni i morti.
Il regista texano Oppenheimer si reca in Indonesia per saperne di più, dar voce alle vittime.
E invece a parlare, a voler parlare, sono i massacratori, i "vincitori", tutti rimasti impuniti, anzi, ancora oggi vere e proprie star in patria.
E non solo vogliono raccontare, ma vogliono rappresentare, fare un film su quello che fecero 40 anni prima.
Parte un'operazione incredibile, la messinscena di un massacro allestita, organizzata, dagli stessi massacratori, una specie di ibrido tra teatro e cinema che deve fungere da autocelebrazione e documento della Verità dei vincitori, verità particolare, perchè esaltatrice della crudeltà degli stessi.
In questo senso quell "Act", atto teatrale, rappresentazione. Una ambivalenza che nel titolo italiano resta ma rimanda troppo all'atto inteso come azione.
Gli attori principali sono due gangster dell'epoca, l'apparentemente mite Anwar Congo, una specie di Morgan Freeman dal carisma incredibile (a proposito, strano e buffo poi che "freeman, uomo libero, sia secondo loro la traduzione di gangster e la giustificazione quindi del loro esser tali).
Vicino lui il terribile, viscido, ambiguo Herman, una specie di Maradona di 130 kg che segue Congo passo passo. I suoi travestimenti da donna per ricreare i fatti di allora sono probabilmente tra i momenti più comicamente terribili del documentario, quelli dove, anche se può sembrar strano, ci arrivano i maggiori brividi lungo la schiena.
Vicino loro gravitano altri criminali dell'epoca, tra tutti un capomilitare che stuprava le 14enni perchè "se per loro era l'inferno per lui era il Paradiso in terra", il redattore di un giornale che per divertimento interrogava persone e le dava ai militari per essere uccise, fino ad esponenti importantissimi del governo attuale, veri e propri difensori di quell'eccidio. Durante il film ci si chiede come possa esistere ai giorno d'oggi un popolo come questo, che ancora invita in televisione questi assassini per farli vantare dei metodi di sterminio o ancora adesso si dichiara pronto a nuovi massacri se ce ne fosse il bisogno.
Ma la grandezza di The Act of Killing è altrove.
E' in questa operazione metacinematografica (o metateatrale?), in questa voluta rappresentazione di sè stessi.
Che poi il cinema fu molto importante anche allora, molti massacri prendevano spunto dai film di gangster americani degli anni 60, a volte si uccideva appena usciti dal cinema dopo aver visto un film di Elvis, si uccideva canticchiando, al ritmo del Re. E se il cinema americano allora era l'ispirazione adesso è l'aspirazione, si vuole fare un film per celebrarsi, che venga visto, che abbia successo. Si scelgono i vestiti, ci si tinge i capelli, si fanno le prove generali, si cerca di ricreare al massimo l'atmosfera dell'epoca, si mette ferocia e inumana (finta) brutalità nelle ricostruzioni delle esecuzioni, ci si lamenta se "no, là stavo ridendo, taglia".
Il confine tra verità e finzione, tra storia e rappresentazione scenica si fa labilissimo. E l'operazione si fa ancora più metacinematografica quando non solo si fa il film dentro il film ma quando gli stessi attori, specie Congo, rivedono le scene sul televisore per vedere se sono venute bene. Un film nel film nel film.
Geniale, terribile, spiazzante.
Congo è un one man show, una specie di Celentano che scrive, dirige e interpreta il Suo film.
La regia (quella vera, di Opphemeier) e il montaggio sono perfetti, un mix tra dietro le quinte, interviste, prove quasi teatrali e ricostruzioni di grande livello tecnico e cinematografico (delle specie di veri e propri corti dentro il film) degli interrogatori-omicidi o dei massacri di 40 anni prima.
Non solo. Congo e i suoi organizzano dei siparietti kitsch, degli inserti musicali, sì, veri e propri musical, in cui ci sono loro che cantano, ballerine che ballano in delle cornici fiabesche di natura incontaminata. Herman, l'obeso tirapiedi, si traveste e sembra una viscida drag queen. E il fatto incredibile è come tali momenti, così fuori contesto, così irreali e surreali, diano i brividi ma non sembrano affatto fuori contesto, anzi, paiano come siparietti che esaltano ancora di più la pazzia e il tipo di operazione che i carnefici stanno portando avanti. C'è di tutto, anche una specie di cinema espressionista anni 20 quando Congo ricostruisce i suoi incubi per i massacri che ha perpetrato. Quel fantasma del Comunista che lo perseguita, una specie di Pulcinella a farfalla è grottesco.
Ma sono forse due le scene madri del film, quelle che hanno dentro più cose.
La prima è quando Congo, per la prima volta, si mette a fare il ruolo della vittima, quella di un comunista torturato e strangolato in un interrogatorio. Quel filo che gli cinge la gola, anche se appena tirato, lo mette in crisi. Ferma le riprese, è stanco, è strano. Qualcosa l'ha colpito dentro, ha vissuto in piccolissima parte il dolore, la paura e la sofferenza delle migliaia di vittime che ha ucciso.
Per un momento ci sembra quasi che la sua sia stata un'immedesimazione catartica, che quella "scena" possa averlo cambiato. E un pò è così, da lì in poi qualche scrupolo di coscienza gli viene, qualche remora a girare scene troppo crudeli, qualche senso di colpa. Ma, lo sappiamo, sarà solo una crisi passeggera perchè uomini così non cambiano. Anche se il rigetto che il suo corpo fa alla fine tra risucchi, rutti e peti qualcosa vuol dire.
La seconda scena madre è quella della ricostruzione più grande e importante, quella del massacro a un intero villaggio.
Tra l'altro anche a livello cinematografico la scena è magnifica, con quelle immagini dietro il fuoco.
Stavolta i soliti 3,4 attori, Congo, l'obeso e gli altri, non bastano, si assoldano donne e bambini per interpretare le donne e i bambini dell'epoca.
Si fa la scena, si bruciano case, persone, si uccide, si urla, si inneggia al massacro, i bambini si stringono nelle madri, urlano, piangono
Recitano qualcosa di inumano.
Tutti i corpi sono a terra, tutti morti.
Fine riprese.
Ma c'è qualcosa di strano, i bambini continuano a piangere per davvero stavolta, una donna è in stato di shock.
Ma come, si è solo rappresentato, ma come, quelli lì sono gli eroi di un paese intero.
Ma quella donna non si riprende, quella bambina continua a piangere.
Se questo film può avere un senso, e non voglio dire quale, non voglio andare ancora più lungo, non voglio esser retorico, ma se questo film ha un senso, questo senso è da ritrovare nel tremolio di quella donna e nella lacrima di quella bambina.

Gruppo COLLABORATORI SENIOR jack_torrence  @  05/11/2013 18:38:44
   10 / 10
La storia la scrivono i vincitori.

E quando il conflitto è un conflitto civile, e i vincitori si servono di assassini, e questi assassini non vengono mai puniti, e il mondo non se n'è mai occupato?
"Mi portino pure all'Aja" dice con leggerezza e tracotanza, senza crederci ovviamente, uno dei personaggi reali, protagonisti di questo allucinante, folgorante, geniale documentario, che all'Aja probabilmente non ci andrà mai (ma chissà?), per dei crimini commessi 50 anni fa.
L'Indonesia degli anni '60 fu teatro di un genocidio perpetrato a danno di dissidenti politici, classi emarginate, etina cinese, e altri, radunati sotto la nomea generica di "comunisti". Affinché fossero eliminati, i militari al potere si servirono (come altrove è successo) di una banda criminale legalizzata de facto. Una banda paramilitare che esiste ancora, e prospera, contigua all'attuale governo indonesiano. Nel film ne vediamo i raduni orgogliosi, gli slogan, i riti dal taglio distintamente fascistoide.

Per avvicinare questa gente, e poterne filmare il presente insieme a famiglia e nipotini, gli autori di "The act of killing" hanno scelto di fingere di chiedere a questi anziani criminali e ai loro attuali scherani di mettere in scena le loro gesta efferate, al fine di portarli sullo schermo facendone un film. Enorme fascino che esercita il mezzo cinematografico! (Chiedetelo ai personaggi di Gomorra che recitano Scarface; o a Saviano, che ha illustrato per esempio come i malavitosi della camorra avessero imparato dai film di Tarantino una diversa, in realtà disfunzionale, maniera di impugnare una pistola).
Si usa frequentemente la parola "gangster", in questo film: e si allude proprio al cinema di genere: i "protagonisti" di "The act of killing" sono esaltati dall'idea di potersi mettere in scena.

Lo shock, autentico, di noi spettatori, scaturisce non tanto dall'efferatezza cui si allude e che si mima senza ritegno. Lo shock scaturisce dalla labilità provvisoria di riferimenti morali.
Questa gente - qui sta il cuore del film - ha agito senza sentirsi nel torto; ha vissuto nell'impunità, e non ha mai elaborato un senso di colpa.
Possibile? Che bestie siamo, o possiamo ridurci a essere, noi esseri umani?...

"The act of killing" è un reperto documentale di enorme valore storico e cinematografico, da proiettare come prelusione a corsi universitari così di storia come di estetica; oltre che - semplicemente - di cinema.

Per due ore (nella versione ridotta del film), siamo costretti a familiarizzare con gli autori di un genocidio: e per queste due ore non smettiamo di interrogarci sulla natura umana e sulle dinamiche sociologiche che possono distorcere, sino ad annullarlo, il comune senso morale (semmai ne esista uno. Che sarebbe questione non dissimile, filosoficamente, dall'interrogarsi sul fondamento del "diritto naturale" che poi è la base del diritto dell'uomo. Solo ammettendo un diritto naturale pre-statale è possibile ritenere legittimo perseguire crimini contro l'umanità come quelli del genere perpretrato in Indonesia negli anni '60).

La messa in scena (fittizia) delle atrocità, diversi momenti di finzione esplicita in questo film (la messa in scena - estremamente verosimile - dello sterminio di un villaggio, oppure alcuni surreali sipari volutamente kitsch, come quello che fornisce al film la sua locandina), e infine persino una sequenza da musical, rendono vertiginoso e straniante il modo in cui si confrontano e si rispecchiano la realtà fattuale, il suo processo di documentazione, e la sua messa in scena narrativa.
Non è una scelta casuale quella di non ricorrere, come in un documentario tradizionale, a documenti visivi d'epoca. Questo è cinema del reale affine a tanto altro cinema che, in questo scorcio di XXI secolo, sta rendendo sempre più labili e indistinti i confini fra cinema di finzione e documentario (vedasi la vittoria di "Sacro Gra" al festival di Venezia di questo 2013).
Con il risultato che (nella stessa epoca della massima manipolazione visiva del reale, per tramite del mezzo digitale) il cinema più importante e innovativo di questi anni sta rivendicando la centralità dello sguardo sul Reale attraverso una forma di realismo - che diverrà a noi via via più familiare - che, per adesso, sta garantendo alle immagini sullo schermo, in film come questo, una rinnovata e devastante potenza.
La potenza dell'autenticità.

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Ultima risposta 05/11/2013 21.13.21
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