Dopo il furto della propria bicicletta, mezzo che gli permetteva di lavorare, un uomo vaga per la città con tutta la famiglia sperando di poterla ritrovare. Preso dalla disperazione non gli resta che rubarne una a sua volta ma viene bloccato dalla polizia...
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Senza una rima, senza ricamate parole, senza simbolismi o grandi metafore, esistono in arte poesie toccanti e bellissime. E “ladri di biciclette” ne è uno degli esempi più luminosi, e non solo del periodo neorealista, ma di tutto il Novecento. In una Roma ancora affranta dal passaggio della recente guerra, un padre e suo figlio vagano in cerca della bicicletta rubata. In bilico continuo tra forza della disperazione e totale sconforto, incontreranno altra miseria, ostilità, ovunque indigenza. Il viaggio disperato dei due, in cerca di quell’oggetto che affolla oggi, per lo più inutilizzato, i nostri garage e le nostre cantine, e che per loro significa invece àncora di sopravvivenza, suscita in chi lo segue un senso esteso d’impotente compassione. Il finale sarà uno dei più avvilenti di tutta la storia del cinema. Esistono poesie dolcissime, piene d’acrobazie sintattiche e virtuosismi concettuali, esistono poesie che parlano di sentimenti sublimi, acrostici amorosi, teneri madrigali (per dirla alla Poe); ma questa di “Ladri di biciclette” (e non sarà la sola firmata da De Sica) è una delle più belle che io abbia mai letto.