Un villaggio protestante della Germania del Nord. 1913/1914. Alla vigilia della prima guerra mondiale. La storia dei bambini e degli adolescenti di un coro diretto dal maestro del villaggio, le loro famiglie: il barone, l’intendente, il pastore, il medico, la levatrice, i contadini. Si verificano strani avvenimenti che prendono un poco alla volta l’aspetto di un rituale punitivo. Cosa si nasconde dietro tutto ciò?
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Michael Haneke ambienta il suo film in un villaggio agricolo del primo Ottocento, che sembra un po' la Schabbach di Heimat. In questo villaggio come tanti, con la sua chiesa, la sua scuola, i suoi campi e le sue figure archetipiche (il barone, il pastore, il dottore, il maestro, la levatrice, l'intendente), accadono dei fatti misteriosi che gettano la popolazione nello sgomento: una corda tesa fra due alberi fa cadere il dottore da cavallo, provocandogli gravi ferite, il figlio del barone viene seviziato nel bosco, il figlio ritardato della levatrice è addirittura accecato. Nel frattempo, quasi contestualmente, l'Europa si avvia verso la tragedia della Prima Guerra Mondiale. L'intento di Haneke è ovviamente quello di rappresentare qualcosa di più di un giallo di provincia,
di cui solo alla fine si lascia intuire che i responsabili sono i ragazzi che frequentano la scuola del maestro-narratore, tutti figli delle famiglie più in vista del paese, educati con autoritario rigore e puritano fanatismo dalla mano ferma dei loro padri-padroni. Questi stessi ragazzi sono infatti coloro che vent'anni più tardi avrebbero ingrossato le file degli adepti del partito nazista,
e Haneke qui vuole stabilire più di una relazione indiretta tra le due epoche storiche, vuole far vedere nientedimeno che il serpente dentro l'uovo che lo sta incubando. Il riferimento a Ingmar Bergman non è casuale: Bergman è infatti il vero nume tutelare de "Il nastro bianco". La punizione corporale inflitta dal pastore ai suoi figli ricorda un analogo episodio di "Fanny e Alexander", i dialoghi tra il dottore e la levatrice sembrano tratti da "Scene da un matrimonio", lo spirito tormentato, pessimistico e crudele di molte sequenze ricorda quello dei film degli anni '60 del maestro scandinavo, lo stesso splendido bianco e nero, algido e accecante, assomiglia a quello di Sven Nykvist. Lontano da ogni concessione spettacolare, Haneke perlustra le radici del male in una situazione di apparente normalità (così come aveva fatto con tutte le altre sue pellicole) e porta coraggiosamente alla luce del sole il verminaio nascosto sotto la superficie di purezza, perbenismo e buone maniere, realizzando forse il suo film più freddo e controllato, ma anche il più sadico ed agghiacciante.