I progetti faciloni di ascesa sociale di un immobiliarista, il sogno di una vita diversa di una donna ricca e infelice, il desiderio di un amore vero di una ragazza oppressa dalle ambizioni del padre. E poi un misterioso incidente, in una notte gelida alla vigilia delle feste di Natale, a complicare le cose e a infittire la trama corale di un film dall’umorismo nero che si compone come un mosaico. Paolo Virzì stavolta racconta splendore e miseria di una provincia del Nord Italia, per offrirci un affresco acuto e beffardo di questo nostro tempo.
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Ormai non serve più a niente nascondersi sotto km di corsivo e ridere di Paolo Virzì, il suo cinema sarà derivativo ma quando è costruito nel miglior modo possibile - un montaggio che persino i francesi si sognano - è tra i migliori prodotti italiani in assoluto. Finalmente la sua vena graffia veramente (e non suscita irritazione come in passato, cfr. tutta la vita davanti) ma è soprattutto la memorabile galleria di personaggi femminili, degna del miglior Monicelli, a convincere appieno. Tre donne di tre generazioni diverse (più o meno) sopraffatte o oscurate dall'amore, dalle ambizioni e dalle aspettative, davanti a un universo maschile alle prese con la crisi economica e il bisogno - orribile e magistrale in tal senso il personaggio di Gifuni - di mantenere uno status al di là di tutte le conseguenze. Penso sia incantevole soprattutto l'aderenza psicologica di Valeria Bruni Tedeschi, ora viziata mondana, ora moglie insoddisfatta, ora ancora artista mancata e amante occasionale, o madre sbagliata. Una gamma di emozioni che descrive apertamente - e chi può dire il contrario se non nella cieca posizione demagogica di un odio inerme? - la durissima crisi di una borghesia azzerata nella sua routine quotidiana. Bello, bellissimo, emozionante, mentre dipinge un mondo di castelli in aria dove vivere giovani significa lottare annientarsi o cercare la fuga. Altre cose mi sono piaciute meno (uno storico teatro in rovina, il personaggio inutilmente pseudo-sessantottino di Lo Cascio) ma "Il capitale umano" resta un film di primissimo piano nella storia del cinema italiano di questi anni, con una consapevolezza scenica e morale (le lacrime della Tedeschi, il dolce e amaro ritorno alla realtà dell'epilogo finale, la cialtrona spacconeria di un Bentivoglio quasi quasi vicino all'Alberto Sordi d'annata) che lascia sbigottiti