La storia è ispirata alle sanguinose rivolte che sconvolsero Detroit nel 1967. Tra le strade della città si consumò un vero e proprio massacro ad pera della polizia, in cui persero la vita tre afroamericani e centinaia di persone restarono gravemente ferite. La rivolta successiva portò a disordini senza precendenti constringendo cosi', ad una presa di coscienza su quanto accaduto durante quell'ignobile giorno di cinquant'anni fa.
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Come già per Zero dark Thirty, la Bigelow costruisce un film che è un ibrido: all'inizio sembra voler essere un film corale sui didorsini di Detroit, poi diventa un thriller tesissimo che per oltre un'ora indugia in 3 stanze e poi diventa un legal drama. L'inizio e la fine sono i tratti meno rigorosi e riusciti, entrambi "sbrigativi", e quasi "superficiali" rispetto alla densità e alla potenza della parte centrale nel motel, dove il razzismo si esplica negli sguardi, sull'insistenza dei primi piani, sulla modulazione del tono della voce. Detroit è quindi atto d'accusa contro le ingiustizie della polizia, perpetrate ai danni degli afroamericani grazie alla connivenza di un sistema giudiziario profondamente iniquo (da notare che il giudice del processo e l'intera giuria sono bianchi): l'ingiustizia diventa norma e le ingiustizie cambiano il corso della vita degli uomini.
Il più politico degli ultimi tre film della Bigelow (non che The hurt locker e Zero dark thirty non lo fossero, a modo loro) è politicamente schierato, visivamente ineccepibile, crudo nei giusti canoni del realismo, muscolare come l'ultimo cinema della regista. Manca però, la forza, la potenza, delle due opere precedenti.