In una baraccopoli romana vive una famiglia di immigrati pugliesi composta dal vecchio e tirannico padre, Giacinto, dalla moglie, dieci figli e uno stuolo di parenti. Scopo principale di questi è impadronirsi del milione che Giacinto ha ottenuto per la perdita di un occhio.
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Film coraggioso, al giorno d'oggi non si vedono più film così. Il degrado e lo squallore rappresentati con una potenza infinita: negli arredamenti, nell'allestimento del set, nelle inquadrature silenziose dei bambini, nella violenza, nel linguaggio, nei volti degli attori. Il solo allestire un cast così al giorno d'oggi è impensabile: questi personaggi abbrutiti, grotteschi il cinema odierno ormai li rifugge, volendo rappresentare solo il bello, lo chic, il ricco.
La storia è una fotografia su una realtà che la società benpensante preferisce ignorare: gli ultimi, gli emarginati, gli abitanti delle baraccopoli. Potrebbero essere clandestini, gente della periferia, gitani. Sono persone che vivono una vita degenere all'ombra dei ricchi, all'ombra del Cupolone in questo caso, osservandolo da lontano, ma impossibilitati ad arrivarci.
C'è una tacita rassegnazione in questo film, un fluire dei fatti ineluttabile. I protagonisti di questa vicenda sono talmente vicini alla vita civile, eppure sono rinchiusi in dinamiche interne, in conti da saldare, in affari di soldi, di lavoro, questioni familiari tra di loro, che la realtà è che si capisce benissimo nel film che non ci sarà nessuna evoluzione per loro, ma che rimarranno così, nella loro condizione, distanti un passo dal mondo "civile" ma incapaci di afferrarlo. Per il resto, paradossalmente, si sorride amaramente, si ride anche, si riflette. E' un film che ha tante facce.
Unica pecca è che nella seconda parte perde un po' di ritmo, si dilunga troppo.