Recensione tokyo fist regia di Shinya Tsukamoto Giappone 1995
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Recensione tokyo fist (1995)

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locandina del film TOKYO FIST

Immagine tratta dal film TOKYO FIST

Immagine tratta dal film TOKYO FIST

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Immagine tratta dal film TOKYO FIST
 

Quando Tsukamoto Shinya portò nei vari festival cinematografici internazionali il suo "Tetsuo II", il commento che gli venne fatto più spesso è che il film sembrava esprimere il rapporto tra l'uomo e la moderna Tokyo. Il regista, per sua stessa ammissione, fino a quel momento non aveva trattato tale tematica consapevolmente e rimase profondamente influenzato dalle osservazioni di pubblico e critica, al punto che si rese conto con somma gioia di essere riuscito a trovare un tema tutto suo da poter esplorare e approfondire nei prossimi film. Il risultato di questa rinnovata coscienza sarà "Tokyo Fist" (1995), che si pone come obiettivo proprio quello di trattare, questa volta di proposito, in maniera più esaustiva quegli elementi di "Tetsuo II" che, nonostante il ruolo marginale cui erano relegati, erano risultati i più interessanti.

Tsukamoto decise di ambientare il nuovo film nel mondo della boxe, che ai suoi occhi ha sempre avuto un fascino particolare a differenza degli altri sport, verso cui è indifferente. Infatti, egli vede il ring come il contenitore di ciò che nella Tokyo di oggi, dove la violenza e la morte sono elementi vietati e nascosti, è stato dimenticato; un luogo dove azioni che normalmente sarebbero punite per legge vengono non solo permesse, ma addirittura mostrate a un pubblico festante.

Caso vuole che il fratello di Tsukamoto Shinya, Koji, avesse proprio un passato da pugile dilettante e allenatore di boxe; così il regista gli propose di recitare per lui una parte importante e tornare a girare un film insieme, dopo le esperienze amatoriali ai tempi del liceo con la 8mm del padre. Lavorare con attori non professionisti non lo spaventava di certo, essendo questa una costante della sua carriera, ma con il fratello Koji i risultati furono particolarmente brillanti. La sua performance venne addirittura premiata con il titolo di miglior attore esordiente dalla prestigiosa rivista "Kinema Junpo", e si configura come il punto di partenza di una nuova carriera che lo vedrà comparire anche in film come "Full Metal Yakuza" e "Agitator" di Miike Takashi.

Per il ruolo femminile invece Tsukamoto scelse Fujii Kahori, un'attrice con appena pochi ruoli secondari alle spalle e dalla recitazione molto accademica, ma che il regista riuscirà a plasmare ottenendone un personaggio energico e di assoluto impatto. Il protagonista, invece, sarà interpretato dallo stesso Shinya, che per la prima volta nella sua filmografia ufficiale smette i panni del "cattivo" e diventa la vera figura centrale del film.

Il personaggio principale della vicenda è Tsuda, un giovane sarariiman (termine con cui vengono comunemente indicati gli impiegati giapponesi), la cui vita risulta apatica e alienata sin dalle prime battute del film. Lo vediamo infatti aggirarsi tra agghiaccianti mostri architettonici, che con forme squadrate e ripetitive, l'assenza totale di linee curve e i colori freddi e tetri opprimono l'individuo in una realtà schematica e asettica.

La Tokyo immortalata con incredibile abilità espressiva da Tsukamoto è un ambiente che tende a rifiutare la presenza di qualsiasi energia vitale e ogni sua rappresentazione, che condanna i suoi abitanti a vivere in strutture simili a grandi alveari di cemento, nonché ad essere continuamente sovrastati da giganteschi quanto inquietanti edifici. Ciò si trasferisce anche all'interno dell'abitazione di Tsuda, resa fredda dalle forme squadrate e dalle numerose linee perpendicolari e parallele della scenografia, oltre che dall'utilizzo di filtri blu, colore freddo per eccellenza, con cui il regista riprende la maggior parte delle scene qui ambientate.

Naturalmente, vivere in questo tipo di ambiente non è privo di conseguenze: Tsuda e Hizuru, la sua compagna, sprofondano in uno stato di cronica apatia, come si evince dalle loro annoiate espressioni di fronte al televisore o soprattutto dal fatto che non si ricordano nemmeno l'ultima volta in cui hanno fatto l'amore.

A rompere tale situazione vi è l'intervento di un terzo personaggio, Kojima, che va a completare il triangolo amoroso, vero motore del film e di tutte le opere di Tsukamoto comprese tra "Tokyo Fist" e "A Snake of June". Egli è un pugile dilettante che conosce Tsuda dai tempi del liceo, quando i due avevano assistito all'omicidio di una loro amica da parte di una banda di teppisti e si erano ripromessi di vendicarla. Tuttavia, se Kojima aveva prestato fede alla propria parola iscrivendosi in una palestra di boxe per diventare più forte, Tsuda aveva deciso di entrare a far parte della società "normale", che al contrario conduce all'apatia e all'indebolimento fisico.

Per riuscire nell'intento di riportare Tsuda nel mondo della vita e dell'energia, Kojima decide di risvegliare la sua rabbia tramite la gelosia per Hizuru. Così, per telefono gli decanta la morbidezza della pelle della sua ragazza, nonostante nella realtà sia stato da lei respinto e Tsuda si fionda dal pugile in preda alla rabbia.

Nonostante i bellicosi propositi però egli verrà facilmente steso dai violenti pugni di Kojima. Lo shock subito dal corpo del protagonista, che dopo tempo immemorabile riprova la sensazione fisica del dolore, viene sottolineato tramite l'effetto ralenting delle immagini e l'esagerazione della messa in scena: fiotti di sangue escono dal naso e dalla bocca, mentre la cravatta svolazza per effetto di un simbolico vento di energia e una lampadina esplode per evidenziare l'importante momento di rottura.

Tuttavia, è quando Hizuru decide di abbandonarlo per andare a vivere da Kojima che il mondo casca letteralmente addosso a Tsuda. L'iperprotezione nei suoi confronti infatti si era tradotta ben presto in oppressione e aggressività, fino al punto in cui lei, dopo l'ennesima lite, giunge alla drastica e definitiva decisione. Al protagonista, ora con le spalle al muro, non rimane che sfogare la sua rabbia contro Kojima, ai suoi occhi il colpevole dell'abbandono da parte di Hizuru (anche se in realtà le responsabilità sarebbero da ricercare soprattutto in se stesso). Così decide di iscriversi anche lui alla palestra di boxe, scendendo nel mondo del suo nemico in modo da poter acquisire la forza necessaria per combatterlo.

Tale discesa ha un significato simbolico molto importante. Infatti la contrapposizione tra la Tokyo ufficiale delle aziende, dei sarariiman, dei grattacieli, della tecnologia e il mondo sotterraneo della boxe (non a caso la palestra è ambientata in un seminterrato) è uno dei nodi essenziali del film. Come dicevamo prima, la morte, la violenza, ma anche la sofferenza e l'insicurezza, sono entità che vengono rifiutate dalla Tokyo della normale società, che con esse non si vuole confrontare e le nega fermamente. Tsukamoto ci esprime tali concetti in vari modi.

Al minuto sei del film, Tsuda si reca all'ospedale per fare visita al padre malato, ma durante il tragitto non può fare a meno di notare in un vicolo il cadavere di un gatto. In un primo momento egli si avvicina incuriosito, ma alla vista dei vermi che stanno mangiando la carcassa fugge in preda ai conati. Quando giunge all'ospedale, abbiamo occasione di vedere come invece la malattia e la morte vengono rappresentate nella Tokyo normale: contrariamente allo spettacolo repellente del gatto, qui tutto è bianco e candido, dalle pareti ai vestiti di medici e infermiere, fino alle lenzuola del letto. Persino il viso del padre sembra di una perfezione artificiale e asettica. Tale concezione è evidentemente inconciliabile con una carcassa in putrefazione, e infatti quando Tsuda è sulla strada del ritorno vede che il vicolo è già stato ripulito.

Nel momento in cui poi in una fase seguente del film il padre morirà, il protagonista non farà nemmeno in tempo ad arrivare all'ospedale che il corpo sarà già stato portato nella camera ardente e il suo letto rifatto a nuovo con lenzuola linde e senza macchia. Esattamente come il gatto, anche il cadavere del padre deve sparire prima possibile per ristabilire la perfezione immacolata richiesta dalla società. Quando gli pone le sue condoglianze, ciò che l'infermiera dice a Tsuda è: "Non si preoccupi, quando suo padre è morto non ha sofferto per niente".

Della morte e della sofferenza abbiamo quindi un rifiuto categorico, il quale però non è altro che il rifiuto alla vita e alla sensibilità del corpo. Anche il fatto che Tsuda sia un rappresentante di assicurazioni è molto significativo: egli vende ai suoi clienti il bisogno di sicurezza, ma il rifiuto dell'insicurezza si traduce ben presto in paranoia e ipocondria. E infatti nelle battute iniziali del film vediamo il protagonista sottoporsi a esami medici accuratissimi per un semplice senso di stanchezza. Quindi si viene a configurare un mondo di sostanziale non-vita e non-energia, dove il corpo e la sua sensibilità cadono nell'oblio e la sicurezza diviene un bisogno compulsivo.

A fare da contraltare a questa Tokyo, vi è il mondo della boxe. Qui il corpo è continuamente stimolato dal dolore in combattimenti in bilico tra la vita e la morte e non vi è sicurezza alcuna di ritornare sani e salvi dal ring. Quando Tsuda indossa per la prima volta i guantoni, non riesce a tirare pugni al sacco perché gli vengono dei conati di vomito, esattamente come di fronte alla carcassa del gatto in putrefazione. E' il rigetto all'energia vitale causato dagli anni trascorsi da sarariiman, ma dopo lo shock iniziale egli riuscirà a completare il suo percorso di riscoperta del corpo.

Tale percorso non passa solamente attraverso il dolore dei pugni, ma richiede anche la rottura delle convenzioni sociali, secondo uno schema che ricorda molto quello di "Fight Club" (anche se il film di Fincher arriverà solo quattro anni più tardi). Così Tsuda si dimentica per esempio di pagare l'affitto di casa, si reca a lavoro col volto tumefatto indifferente alle attività svolte, si dimentica persino di ritirare gli esiti degli esami medici a cui si era sottoposto. L'ultima tappa sarà lo scontro finale con Kojima, durante il quale perde addirittura un occhio, ma indubbiamente acquisisce un nuovo livello di coscienza che lo eleverà rispetto alla massa (come si può interpretare dall'ultima sequenza del film).

Interessante è anche analizzare il percorso degli altri due personaggi e le dinamiche del triangolo amoroso. Kojima, per quanto agli occhi di Tsuda paia forte, è in realtà un pugile fallito: continuamente deriso e rimproverato dai suoi allenatori e dal presidente della palestra, in passato era persino fuggito prima di un incontro dimostrandosi codardo.

Anche per lui è necessario quindi un percorso di maturazione per vincere le sue paure e riuscire a realizzarsi come pugile. E sarà grazie al personaggio di Hizuru che ciò avviene, poiché da quando lei va ad abitare insieme a Kojima inizia a rimproverarlo mettendolo di fronte alla nuda realtà, ma nel contempo lo sprona sia con atteggiamenti aggressivi, sia consolandolo e concedendogli il proprio corpo.

Egli troverà così il coraggio di affrontare Kumakagi, un temibile pugile solito a ridurre in fin di vita i suoi avversari, e contro ogni pronostico addirittura di vincerlo, dopo un incontro cruento che lo lascerà totalmente sfigurato. Ciò è particolarmente significativo se pensiamo che invece a inizio film il suo viso non presentava nemmeno una cicatrice, come gli aveva fatto notare Hizuru. Ancora una volta, quindi, Tsukamoto ci dice che la realizzazione e la maturazione possono compiersi solamente attraverso la sofferenza e il dolore.

Hizuru dal canto suo è innegabilmente il personaggio più forte dei tre. Se da un lato rappresenta il vero motore del percorso di cambiamento sia di Tsuda, sia di Kojima, dall'altro non ha bisogno di stimoli esterni ed è padrona autosufficiente delle proprie scelte. Infatti è sua la decisione di trasferirsi da Kojima, così come quella di farsi o di togliersi piercing e tatuaggi per esplorare e conoscere il proprio corpo.

In particolare, queste ultime azioni non hanno la minima motivazione sul piano diegetico e possono essere spiegate solo tramite un percorso introspettivo di Hizuru indipendente dalle azioni degli altri personaggi. Anzi, nonostante lo implori più volte, Kojima si rifiuta di picchiarla in quanto donna, evidenziando l'inutilità dei personaggi maschili all'interno del suo processo di maturazione e la loro ottusità. Anche Tsuda dimostra di avere una convinzione di superiorità nei confronti di Hizuru, quando si offre irrispettosamente di trapiantare la pelle del proprio sedere per coprire il tatuaggio sul braccio di lei.

Dal punto di vista stilistico "Tokyo Fist" rappresenta probabilmente il punto di sintesi perfetto tra la sperimentazione e l'aggressività sul piano visivo e sonoro di "Tetsuo" e la ricercatezza formale e simbolica di "A Snake of June" e "Vital". Pur non rinunciando infatti all'esagerazione della messa in scena e ai movimenti estremi e impazziti della macchina a spalla, con la quale il film viene interamente girato insieme ad alcune inquadrature fisse, Tsukamoto dimostra anche uno stile pienamente maturo e consapevole delle potenzialità di tutti gli aspetti della regia, riuscendo là dove aveva fallito con "Tetsuo II".

Per quanto riguarda la fotografia, basti pensare alle bellissime inquadrature che ritraggono Tokyo nei suoi aspetti più inquietanti ma poetici o all'utilizzo dei colori: il bianco asettico degli ospedali, il grigio dei palazzi, il blu con cui filtra le scene ambientate in casa di Tsuda e Hizuru. Blu che vira verso il giallo e l'arancione quando vi entra Kojima, che rappresenta il mondo della boxe e quindi dell'energia, causando simbolicamente anche un cambio di colore all'interno della casa. Assume così un significato ben preciso il riflesso arancione vicino al viso di Tsuda, quando in una delle prime scene del film egli è al telefono con un collega di lavoro. Quella telefonata, infatti, sarà l'occasione per lui di avvicinarsi per la prima volta al mondo della boxe, ossia di abbandonare il suo attuale stato di non-vita. E' per questo, quindi, che in quell'inquadratura il protagonista viene accostato per la prima volta a un colore caldo.

Dal punto di vista della scenografia invece è magistrale come Tsukamoto metta in netta contrapposizione il mondo di Tsuda e quello di Kojima anche tramite il contrasto tra le rispettive abitazioni (ricordando "Anatomia di un Rapimento" di Kurosawa Akira): se il primo vive in un moderno e freddo appartamento di cemento con tutti i comfort, il secondo abita un edificio fatiscente in legno, con il pavimento in tradizionali tatami e la sola presenza di un antiquato telefono (immancabile strumento di minaccia per il villain tsukamotiano). E' molto efficace anche il contrasto formato dalla stessa casa del pugile con l'ambiente circostante, composto da moderni palazzi e grattacieli, a simboleggiare la sua condizione nella società, esattamente come avverrà per l'abitazione di Kagenuma in "Nightmare Detective".

In conclusione, "Tokyo Fist" è senza dubbio uno dei risultati migliori raggiunti da Tsukamoto Shinya, regista tra i più interessanti dell'intero panorama mondiale. Lo stile al contempo estremo ma ricercato, le numerose simbologie all'interno del film, la profondità a livello tematico e la lucidità della critica sociale ne fanno un film dalla perfezione interna pressoché ineccepibile. Una pellicola immancabile per gli appassionati di cinema giapponese e non solo.

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Recensione a cura di Tommaso Ghirlanda - aggiornata al 05/07/2011 17.13.00

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