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Uno degli esordi più interessanti della storia del cinema (senza contare il mediometraggio dell'80 "Permanent vacation"). Dopo l'esperienza come assistente di Nicholas Ray e di Wim Wenders, il trentunenne Jim Jarmusch dà vita ad un'opera divisa in tre atti, che è un vero e proprio inno all'"underground" e al "low budget" (il film è stato girato con gli scarti della pellicola de "Lo stato delle cose"): tra echi "nouvelle vagueiani" e "wendersiani", "Stranger than paradise" si caratterizza per un'estetica particolarissima, dove gli inserti o dissolvenze in nero fungono da cornice ai singoli momenti della narrazione, che danno così l'idea di frammenti di vita in cui si sintetizzano esistenze giovanili ("bruciate") tutte dirette verso la disillusione. Non esiste alcun "new world", ma solo una realtà, metropolitana (New York), fredda (Cleveland) o assolata (Florida) che sia, uguale ovunque e che conduce tutti, in virtù pure di un Caso beffardo, verso strade divergenti (implicito rimando a "Bande à part"?). Temi già noti e ampiamente trattati, ma se non altro riproposti con un minimalismo efficacissimo e originale. Per il resto si tratta d'un "road movie" che, se da un lato, si rifà all'incedere lento de la "Trilogia della strada" (ma senza raggiungere la portata esistenzialista del primo Wenders), dall'altro se ne discosta per la sua struttura diegetica spezzata. Della capacità comunicativa del giovane Jarmusch forse, oggi, non è rimasto pressocchè nulla.
non posso andare oltre il 5 per questo film. interessanti alcune scene, ma la staticità e la passività del film sono insopportabili anche per uno come me a cui piace molto bergman. film reso ancora più pesante da un bianco e nero fuori luogo e dalla sottotitolazione (peraltro nel mio caso di cattiva qualità). Un road movie alla rovescia, con un protagonista "tu vuoi fa' l'americano" travolto insieme ai suoi due compagni dall' insopportabile immobilità dell'essere. Per fortuna il finale incuriosisce.
I due commenti che precedono il mio sono pressoché perfetti nell'analisi, e ricordano quantomeno che Jarmusch può essere compreso e giudicato solo partendo come minimo da quest'opera seconda, altro che DBL, Dead Man, Ghost Dog o il Broken Flowers di domani sera in tv. Già qui c'è tutto l'armamentario dei limiti del regista: minimalismo e road movie nella loro accezione peggiore. Sopravvive l'idea della frammentazione filmica, non tanto con dissolvenze incrociate attraverso un nero, ma con dei veri e propri inserti di pellicola non girata fra una scena e l'altra. La sensazione è quella d'un recupero della fenomenologia europea fino alle teorie della mente secondo le quali noi RICOSTRUIREMMO memorie e ricordi in base alla nostra specifica vena FABULATORIA. I celebri tempi morti di quest'autore indicherebbero perciò anzitutto una simile presa di posizione filosofica, ancora oggi plausibilissima. Si salva pure il titolo davvero originale, tanto da meritarsi d'essere l'unica locandina che ho appesa in camera. E un punto in più rispetto al mio consueto 1.