Un sassofonista, dopo aver ricevuto da uno strano individuo cassette in cui viene ripreso in casa sua durante la sua vita quotidiana, viene accusato dell'omicidio della propria moglie. Ma, una volta in carcere, si trasforma in un'altra persona, che viene scarcerata e inizia una vita in qualche modo parallela a quella precedente...
Sei un blogger e vuoi inserire un riferimento a questo film nel tuo blog? Ti basta fare un copia/incolla del codice che trovi nel campo Codice per inserire il box che vedi qui sotto ;-)
Davvero, questo è un gran film e non solo perché L. riesce ancora una volta a stupire facendo cinema nel modo che gli è proprio (e ancor prima di firmare capolavori quali “Mulholland Drive” o “Inland Empire”), riproponendo quindi i suoi temi fondamentali e la sua regia onirica, ma anche perché riesce a trapiantare un genere come il noir in quella dimensione sfocata ed irreale che contraddistingue le sue pellicole e lo fa senza attribuirgli, però, un’importanza primaria; infatti, così come in un collage vengono inseriti elementi tutti importanti ma solo in una prospettiva d’insieme, allo stesso modo L., con una precisione chirurgica, inserisce tasselli noir in misura sufficiente a trasmettere quanto di più torbido quel genere abbia; al tempo stesso, inoltre, fa in modo che quel torbido, a sua volta, si presenti “semplicemente” come un tassello complementare di un più grande mosaico composto da sensazioni, atmosfere ed incubi; tutti elementi concatenati, nonché parti integranti, del fascino sporco di questa pellicola. Ed è così che Phyllis Dietrichson rivive in tutto il suo fascino maledetto, quel fascino da dark lady per antonomasia, attraverso una Alice Wakefield ancora più dark, più sporca ed in generale più in là, interpretata da una Arquette totalmente in parte. Anche lei, come la Stanwyck, pur non essendo una bellezza oggettiva riesce a sprigionare un fascino a tratti surreale. E chi se non Lynch poteva osare così tanto, scomodando LA dark lady, non una qualsiasi, per un film di questo tipo. Menzione particolare merita anche la citazione decisamente evidente al capolavoro “Detour” di Ulmer, da cui Lynch riprende, oltre che l’inquadratura sulla strada come, a mio parere, esplicito tributo, anche temi e aspetti principali quali situazioni limite, percorsi surreali e un destino circolare che non presenta vie di fuga.
Per il resto, Strade Perdute è Lynch. Inesorabile, crudo, in parte ermetico e, ovviamente, onirico; carattere, quest’ultimo, che domina l’intera pellicola e che addirittura ricalca i tratti di un vero e proprio miraggio nella scena in cui Alice e Fred/Peter sono nel deserto..
..“Tu non mi avrai mai” (da brividi).
Non si può, infine, non elogiare una colonna sonora che fa da comprimaria a regia, sceneggiatura e fotografia, in quanto fondamentale a volte per incupire e sporcare ulteriormente i toni (M. Manson - I put a spell on you), altre volte per rendere chimerica una sequenza.