Roma anni '60. Massimo giornalista di un rotocalco scandalistico, si trova in mezzo ai vizi e scandali di quella che era definita "la dolce vita" dei divi del momento.
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Uno dei film più importanti in assoluto nella storia del cinema e della società italiani. Per la prima volta Fellini fa i conti con la realtà contemporanea nuda e cruda e la deforma in una danza macabra di vite vuote e disperate col suo estro fantastico, qui svincolato dai limiti del provincialismo autocompiaciuto che ricorre in altre sue pellicole e proiettato verso i lidi dell'esistenzialismo di marca prettamente europea. La rappresentazione di questo mondo amorale e corrotto è asciutta ed impietosa, carica di tinte grottesche ma anche di pietà: quasi tutti i personaggi sono alla deriva a causa della loro debolezza umana e sembrano attendere una salvezza dall'esterno che forse non arriverà mai. La maestosa regia ha il passo lento e sicuro di un animale di razza che si concede sovente estri improvvisi di grande poesia (dal Cristo in elicottero dell'inizio al balletto pagano alle Terme di Caracalla, al mostruoso pesce morto nel finale); la sceneggiatura, innovativa per l'epoca, accosta singoli episodi conchiusi in sè stessi e collegati solo da alcuni personaggi, a restituire il senso di esistenze vuote, slegate, vissute alla giornata.