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In questo film di Park Chan-wook c'è già tutto il cinema che lo renderà poi famoso di lì a poco anche a livello internazionale: una regia costantemente in movimento e sempre in grado di rendersi visibile e di inventare soluzioni visive, commistione di ironia, dramma e tragedia, attenzione ai micro-dettagli significanti (basti pensare quanto ciò è vero anche per l'ultimo "Decision to Leave"), ribaltamenti temporali e spaziali, surrealismo, continuo giocare con i colori forti della messa in scena, centralità ed esibizione della violenza. Insomma, tutti elementi che ritroveremo negli anni a venire. C'è però anche una scelta decisamente politica, per certi aspetti finanche umanista: uno sguardo (forse un po' piacione) sul tentativo di unire l'impossibile e rendere fratelli quelli che sono fratelli e che sono separati solamente da linee imposte dall'uomo (e nel film c'è un continuo gioco nel mostrare linee e poi romperle, sia sul piano registico che narrativo). Un turbinio di elementi e di temi che per quanto mi riguarda trovano qui più compiutezza che in altri tanto decantati film cult del regista.