andrej rublev regia di Andrei Tarkovskij URSS 1966
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andrej rublev (1966)

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locandina del film ANDREJ RUBLEV

Titolo Originale: ANDREJ RUBLEV

RegiaAndrei Tarkovskij

InterpretiNikolaj Grinko, Anatolij Solonicyn, Ivan Lapikov

Durata: h 3.06
NazionalitàURSS 1966
Generedrammatico
Al cinema nell'Agosto 1966

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Trama del film Andrej rublev

In una Russia messa a ferro e fuoco dalle invasioni asiatiche e sconvolta dalle lotte di potere tra piccoli potentati, il monaco Rublev (1360 ca.-1430), pittore di icone, passa attraverso 9 capitoli (Il volo, Il buffone, Teofane il Greco, La passione secondo Andrej, La festa, Il giudizio universale, La scorreria, Il silenzio, La campana) che compongono un vasto affresco del Medioevo russo.

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Voti e commenti su Andrej rublev, 56 opinioni inserite

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kafka62  @  26/01/2018 17:23:06
   10 / 10
Il vero significato di Andrej Rublev, quello forse più recondito e meno percepibile, si ricava a mio avviso dal confronto tra due episodi, il prologo e La campana. Il primo appare, ad un primo sguardo, come una proiezione simbolica dell'anelito artistico, della tensione innata e ineliminabile dell'uomo verso l'ignoto, l'inesplorato, il mai realizzato prima (anche se magari questo ignoto altro non è che la pura e semplice realtà, vista però con occhi diversi, in un certo senso vergini, capaci di trasfigurarla e sublimarla). Oltre a questo, vi sono però nel prologo, se lo si guarda bene, anche i termini di un conflitto: quello tra l'artista che potrei definire "celeste" e l'artista che chiamerò invece "terreno". Il novello Icaro dell'introduzione fa parte ovviamente della prima categoria e si contrappone all'altro artista-simbolo del film, Boriska. Mentre il primo si separa radicalmente dal consesso degli uomini (tra l'altro, la sua partenza è accompagnata dalla lotta di strani personaggi non meglio identificati, i quali cercano di favorire o di impedire l'impresa) per volare con la sua rudimentale mongolfiera sopra lo sconfinato suolo russo, in atteggiamento estatico ma sostanzialmente solipsistico, il secondo si immerge con abnegazione nel mondo, nella vita, nella terra (non solo simbolicamente, ma anche materialmente, quando cerca l'argilla più adatta alla sua opera), al fine di realizzare lo strumento capace di catalizzare e soddisfare i bisogni, i desideri e le aspirazioni della gente.
Questi due poli antitetici e contraddittori si riverberano sull'intero film, che infatti sta propriamente tra cielo e terra, sprofondato tanto nella prosaicità e nella brutalità del mondo (percorso com'è da violenze, morti, pestilenze e carestie), quanto capace, con i suoi movimenti di macchina, le sue panoramiche e la sua fotografia di folgorante bellezza, di improvvisi stacchi aulici e di impennate poetiche. Nella sequenza iniziale del volo si può già intravedere tutto questo: il pallone aerostatico è infatti alto nel cielo ma la cinepresa rimane ostinatamente fissa, quasi fosse vittima di un incantesimo, verso il basso. E' questa una caratteristica peculiare del cinema di Tarkovskij. L'intento didascalico (così come la costruzione simbolica) risulta abbastanza evidente, ma non prevale mai sulla componente estetico-figurativa dell'opera. Se è vero che nel volo si palesa un importante discorso sull'arte, è altrettanto vero che l'obiettivo del regista rimane affascinato dai fiumi, dalle praterie, dai cavalli al galoppo che scorrono sotto di lui. Si assiste inoltre alla contrapposizione tra uno sguardo tutto sommato naïf e l'ostentazione delle tecniche di ripresa più raffinate e sofisticate. Insomma, Andrej Rublev è un film ricco di stimolanti antitesi, di efficaci dualismi, che raggiungono il loro acme nell'oggettivazione di domande che hanno sempre contrappuntato, fin dall'antichità, la storia dell'uomo: cos'è l'arte e cosa significa essere un artista? come si deve schierare l'artista nella società in cui vive? le sue opere hanno una funzione puramente estetica ed esornativa o anche un ruolo sociale? e così via.
Anzitutto, Tarkovskij sembra dirci che il dono dell'arte è qualcosa di misterioso e di inspiegabile, che ha a che fare meno con l'esperienza che con un congenito talento creativo. Boriska, quando si dice capace di fondere le campane, in realtà bluffa in maniera inopinata (anche se noi lo veniamo a sapere solo alla fine del film): egli non ha ricevuto dal padre alcun segreto, ma ciononostante, per un incomprensibile concorso di genio e di fortuna, mettendo a repentaglio la sua stessa vita, riesce nella difficilissima impresa. La scelta del luogo in cui fondere la campana, della qualità dell'argilla, della percentuale di metallo prezioso necessario, si rivela miracolosamente quella giusta e alla fine del lavoro i rintocchi nitidi e potenti che si diffondono nell'aria sanciscono la sua vittoria. Ciò che fa di un uomo un artista non è quindi una opzione intellettuale, ma una vocazione e un trasporto più vicini all'intuizione mistica che alla riflessione razionale, eppure al tempo stesso più vicini alla materia che allo spirito.
In questa contraddizione apparente si inserisce il personaggio di Andrej, nella sua doppia veste di pittore di icone e di monaco. Egli attraversa il film quasi come uno spettatore, senza alcuna precisa funzione di deus ex machina narrativo. Anche negli episodi in cui Andrej ha un ruolo per così dire accessorio, si manifesta comunque in lui, pur in maniera non sempre evidente, una riflessione intima, il disvelamento di un conflitto interiore avente come oggetto il senso riposto ed autentico del suo essere artista. Andrej è sicuramente più vicino a Boriska, cioè all'artista "terreno" (ma all'inizio non lo sa, o per meglio dire non riesce a mettere in pratica questa consapevolezza latente), mentre il suo alter ego, Teofane il Greco, simboleggia l'altro polo, quello che ho prima identificato con il pioniere del volo. Tra i due, nell'episodio La Passione secondo Andrej, c'è un colloquio molto bello ed importante, forse il primo momento in cui gli episodi slegati che finora si erano succeduti sullo schermo trovano una sorta di sintesi ideologica. A Teofane, che rappresenta l'intellettuale rinchiuso nella sua esclusiva torre d'avorio ("Io servo Dio, non gli uomini") e che considera l'umanità come una massa bruta ed abietta, da disprezzare e mantenere nell'ignoranza (magari sull'ipocrita presupposto che "la conoscenza delle cose conduce al pianto"), Andrej replica rivendicando il dovere dell'artista di stare in mezzo agli uomini, a contatto con le loro debolezze e le loro sofferenze, perché "i popoli hanno bisogno di qualcuno che ricordi loro che sono dei popoli". Andrej si contrappone perciò alla tentazione, sterile e blasfema per quanto inebriante, di volare alto nel cielo, alla ricerca di una perfezione narcisistica e solitaria. Non mi sembra casuale che Tarkovskij suggelli questa prometeica empietà con la rovinosa ricaduta al suolo dell'aerostato: il compito dell'artista è difatti un altro, ossia quello di operare in mezzo alla gente, per farle finalmente riacquistare la dignità perduta e scoprire le proprie potenzialità, ma non come un privilegiato, un essere eletto, bensì come uno tra i tanti che di diverso ha solo la fortuna di possedere dentro di sé la scintilla divina dell'arte. La nozione trascendente e religiosa dell'Arte (intesa come bisogno ontologico da parte dell'uomo di creare) si accompagna così a una concezione essenzialmente immanente della pratica artistica. L'artista deve quindi saper resistere alla lusinga del superomismo, della vanità, della glorificazione in terra, ed avere invece l'umiltà di mettersi al servizio del popolo, e ad esso (assai più che a Dio) indirizzare le sue opere.
Film-saggio esemplare sul significato dell'arte e della creazione artistica, Andrej Rublev è invece sconcertante se viene visto come un normale film biografico. Della vita del suo protagonista, Tarkovskij non seleziona infatti gli avvenimenti più importanti e rimarchevoli, ma solo episodi marginali e scarsamente significativi, frammenti esistenziali che non comparirebbero mai in una biografia ufficiale. Oltretutto, Andrej non viene mai ripreso mentre dipinge, e solo nell'epilogo abbiamo l'opportunità di ammirare alcuni dei suoi capolavori. L'indiscussa originalità della pellicola è legata soprattutto alla scelta di una struttura aneddotica e sincronica, in cui, nonostante la progressione cronologicamente ordinata e la collocazione storicamente precisa, gli episodi sono quasi sempre raccontati in una prospettiva orizzontale, indipendente dagli usuali rapporti di causa ed effetto e svincolata altresì da un evidente processo evolutivo. La sceneggiatura (di Konchalovskij, oltre che del regista) è comunque quanto di più rigoroso si possa immaginare: pur in apparenza slegati tra loro, gli otto capitoli di cui si compone il film (più il prologo e l'epilogo) sono in realtà parti indissolubili di una parabola che rivela il suo senso autentico solo nel finale. La complessità dell'opera deriva anche dalla congerie di elementi (diegetici, simbolici, metalinguistici) che si trovano stratificati al suo interno e legittimano livelli di interpretazione assai diversi tra loro. Se però si ha la pazienza di decifrarlo e di ricomporlo come un puzzle, allora il film appare dotato di un assetto estremamente lineare, in cui ogni episodio appare dotato di una sua intima necessità drammaturgica, chiara ed univoca.
La vita di Andrej si snoda così come una parabola umana che parte dalla fede e dalla fiducia ottimistica nella vita e negli uomini, passa attraverso il dubbio più macerante, e approda infine a una sofferta consapevolezza. Questo itinerario è contrappuntato da tutta una serie di simboli i quali, estrapolati dal contesto narrativo e trasferiti più propriamente in quello semantico, permettono di vedere il film nella sua giusta luce. Consideriamo i numerosi simboli di morte e di disfacimento che sono disseminati, in maniera a volte immotivata a volte invece strettamente consequenziale, lungo tutta la pellicola: l'uccello in decomposizione che Fomka trova nel bosco, il serpente che nuota nell'acqua mentre Andrej parla della menzogna, il cavallo nero che cade dalle scale durante il sacco di Vladimir, per fare solo alcuni esempi, preannunziano, o addirittura caratterizzano, un'epoca di inaudita ferocia e violenza.
Quello della violenza è, in Andrej Rublev, qualcosa di più di una semplice cornice storica. Le insostenibili sequenze di torture, di scorrerie barbariche e di sopraffazioni, così simili a infernali scene boschiane, sono sì connaturate al secolo (il quindicesimo) in cui Tarkovskij ambienta gli eventi, ma vanno anche al di là del loro immediato impatto emotivo. Se da una parte infatti il ricorso a un secolo così lontano rispondeva alla necessità contingente di aggirare l'occhiuta censura sovietica (un po' come era avvenuto per l'Ivan di Ejzenstejn), dall'altra c'era l'inequivocabile volontà di attualizzare il più possibile il discorso. Di qui la scelta di una violenza assoluta, intollerabile nella sua metafisica ineluttabilità, la quale ha per così dire l'effetto di universalizzare il tema della libertà violata. Non si tratta solo del sacco di Vladimir o delle torture in piazza, ma anche della violenza più subdola e insidiosa: quella che viene esercitata contro coloro i quali cercano di propugnare, in maniera magari iconoclastica ma pur sempre pacifica, idee e valori diversi da quelli sostenuti dal potere. Il buffone irriguardoso nei confronti dei boiardi e la piccola comunità che celebra il rito pagano dell'arrivo della primavera vengono crudelmente perseguitati perché sono diversi e perché il loro rifiuto delle convenzioni sociali e religiose non si lascia piegare dall'insopportabile ed asfissiante conformismo delle istituzioni. Il significato di questi episodi, apparentemente così difficili da inscrivere nel corpus generale dell'opera, è in realtà lampante. Essi si inseriscono infatti alla perfezione nel lento processo di maturazione di Andrej. Se in un primo momento Andrej rimane quasi indifferente alle ingiustizie cui gli capita casualmente di assistere (Il buffone), in seguito egli viene profondamente turbato da questi episodi, anche se la supina obbedienza alla sua monolitica fede lo induce a non prendere posizione. Esemplare è la scena, sottilmente simbolica, in cui Andrej, assistendo di nascosto alla festa in riva al fiume, si accorge che il suo vestito ha preso fuoco e subito si affretta a spegnerlo. La rivelazione di una vita diversa (più libera e disinibita) infiamma il suo animo per un solo breve attimo, ma ormai il dubbio è penetrato in lui.
Con questo episodio Tarkovskij dimostra in maniera inequivocabile di essere contro ogni assolutismo, contro ogni potere autocratico, contro ogni Chiesa che pretenda di imporre con la forza il suo credo, persino la sua idea di amore ("Ma come è possibile vivere sempre nel terrore? – si chiede la donna nuda avvicinatasi ad Andrej legato – esiste un solo amore"). Il seme instillato nell'animo di Andrej fatalmente germoglia, e questi improvvisamente inizia a dar segni di insofferenza nei confronti della sua religione. Se con Teofane aveva espresso l'inammissibile dubbio che la volontà di Dio fosse ingiusta e crudele, egli adesso si rifiuta di dipingere un Giudizio Universale pieno di diavoli e di atroci castighi infernali ("io non voglio terrorizzare la gente") e tuona contro le Sacre Scritture che discriminano scioccamente le donne che portano i capelli sciolti in un luogo di culto. La messa in discussione dei principi su cui si fondava la sua vita precedente, accompagnata dalla presa di coscienza della natura ferina e cannibalesca dell'uomo, è foriera di un profondo smarrimento. La crisi di Andrej non è in realtà espressione di una vera e propria sfiducia nel genere umano, anche se si manifesta inizialmente con l'accettazione delle vecchie posizioni di Teofane, così come non è neppure volontà di espiazione per l'omicidio commesso nella chiesa, ma è più propriamente un temporaneo senso di impotenza, di scetticismo sul fatto che la Verità possa infine trionfare. La rinascita di Andrej deve passare attraverso la inevitabile de-idealizzazione del popolo (rappresentata, con un'altra efficace immagine-simbolo, dalla ragazza muta, la quale nel penultimo episodio fugge dal monastero insieme ai tartari) e la sua successiva rivalutazione in una nuova veste.
Con l'episodio della campana, Andrej comprende finalmente il significato della sua lunga ricerca, il senso del suo essere al mondo. Se prima pretendeva che il popolo dovesse essere all'altezza della propria presunta perfezione, adesso comprende con chiarezza che è lui a dovere, in tutta umiltà, scendere al suo livello. E' pressappoco a questo punto che assistiamo alla prima vera soggettiva del film. Andrej si avvicina a Boriska e questi, rivolgendosi a lui, parla inequivocabilmente rivolto alla macchina da presa. Dopo tante inquadrature oggettive e impersonali, Tarkovskij finalmente si identifica con il suo pittore di icone, e sancisce così la fine della sua crisi. D'ora in poi egli andrà in giro per la Russia, insieme al giovane fonditore di campane, a dipingere icone, nella speranza di dare un motivo di speranza e una identità a quel popolo che, quando la campana diffonde nell'aria i primi rintocchi, viene simbolicamente materializzato in una donna vestita di bianco che tiene per le briglie un cavallo nero.
L'uso insistito di elementi simbolici (i quali per fortuna non giungono mai ad essere troppo espliciti o pedanti) colloca Andrej Rublev su un piano decisamente antirealistico. Volerlo perciò vedere a tutti i costi come un film storico sarebbe un errore grande almeno quanto il considerarlo un film biografico. Come già ne L'infanzia di Ivan, si intersecano nel film svariati livelli di realtà "attenuata": quello del sogno, quello della memoria (Andrej ricorda ad esempio un episodio accaduto tanti anni prima, quando insieme a Danil il Nero aveva trovato riparo dalla pioggia sotto un albero solitario) e soprattutto quello del soprannaturale. Nella chiesa devastata dalle scorribande dei tartari, in un'atmosfera sospesa e rallentata, Andrej parla lungamente con il fantasma di Teofane, mentre la neve cade dall'alto ("Non c'è nulla di più pauroso della neve che cade in una chiesa") e un cavallo nero entra dal portone spalancato. In questa sequenza magica, la cui irrealtà è sottolineata solo da alcuni movimenti di macchina (ad esempio, Andrej parla con Teofane alla sua destra, quindi si gira, si sposta lateralmente, ed il vecchio compare ora alla sua sinistra, tutto senza alcuno stacco), è riassunto perfettamente lo stile di Tarkovskij, il quale ruota ossessivamente intorno a delle epifanie e a dei leit motiv. Per ciò che concerne le prime, va detto che molto spesso le apparizioni e gli avvenimenti dei film del regista preludono a qualcosa che deve ancora avvenire, oppure rivelano una nuova, inattesa dimensione. Nella sequenza in esame, il cavallo nero e la neve sono forse i labili indizi di una lontana speranza destinata prima o poi ad avverarsi a dispetto del cupo pessimismo che si respira e che sembra non lasciare spiragli.
Per quanto riguarda i leit motiv, in tutto il film si susseguono due immagini-chiave: l'acqua e i cavalli. Nell'acqua del fiume, per esempio, la ragazza nuda riesce a sfuggire agli uomini che la inseguono, Fomka lava il pennello mentre la macchina da presa (sfruttando al massimo le possibilità del bianco e nero) segue i colori che si sciolgono in essa, e la fiasca di un uomo ucciso vi lascia colare il suo contenuto. L'acqua del fiume rappresenta le infinite possibilità dell'esistenza, può essere palingenesi o all'opposto dissoluzione, ma più spesso indica semplicemente il passaggio da uno stadio della vita a un altro, mentre la pioggia è soprattutto un simbolo di rigenerazione e di rinascita. Emblema di speranza e di fede nella vita sono invece i cavalli, i quali dalle prime immagini (il cavallo inquadrato dalla porta della chiesa da cui il pallone aerostatico sta per prendere il volo) all'ultima (il branco di cavalli bianchi che pascola sotto la pioggia estiva) disseminano della loro vitale presenza l'intero film. I leit motiv di Tarkovskij, che si ripetono puntualmente in tutta la sua filmografia, ci introducono in un universo individualissimo ed esclusivo, e costituiscono i segni più riconoscibili della sua inconfondibile poetica d'autore.
Del suo primo lungometraggio, L'infanzia di Ivan, la critica aveva messo negativamente in risalto l'esasperata ricerca stilistica e l'eccessivo formalismo, trascurando ingiustamente la sua forte carica poetica. Con Andrej Rublev è stata comunque fatta giustizia di tutte le incomprensioni esegetiche: il virtuosismo tecnico, i carrelli, le riprese dall'alto o al ralenti, sono messi al servizio di uno stile che riesce sempre a garantire un elevato livello di "leggibilità" e a rimanere aderente alla storia narrata. In Tarkovskij c'è una capacità di messa in scena che oserei definire ejzenstejniana. Nella sequenza della presa di Vladimir, ad esempio, il regista riesce a creare uno spazio scenico veramente "totale", passando da un episodio all'altro in piano sequenza, animando gli sfondi lontani dall'azione principale e movimentando piani spaziali (anche in senso verticale) diversi. Tarkovskij riesce a far questo senza ambire alla esasperata e geometrica perfezione di Ejzenstejn, bensì privilegiando sempre la vitalità della scena (a volte ricorrendo perfino a carrellate "naturali", come quando la camera inquadra le imbarcazioni che le scorrono davanti trascinate dalla corrente), oppure creando momenti di sospensione trasognata (come durante la panoramica circolare che, nel primo episodio, fa seguito all'ingresso dei monaci nell'isba).
Il rapporto di Tarkovskij con il paesaggio, con i fiumi, con le pianure, insomma con la terra russa, è assolutamente unico, al punto che sono loro, gli elementi naturali, ad assurgere a veri protagonisti del film. Ho detto all'inizio che Andrej Rublev è un film che si colloca tra cielo e terra. Nell'episodio della campana c'è una scena emblematica di questo duplice modo di essere. Scavando la buca che dovrà ospitare la fornace, Boriska trova una piccola e sottile radice, la segue con le mani per qualche metro, ma quando tenta di strapparla si accorge che fa parte di un grosso albero che si innalza sopra di lui. Il piccolo (la radice, il singolo individuo) rimanda sempre a un organismo più grande di lui (l'albero, il popolo), e questa appartenenza lo rende assai più forte di quanto lascerebbero supporre le sue individuali, esigue risorse. Quando la macchina da presa, dopo uno stacco, si alza lungo il tronco di un albero fino a una decina di metri da terra, il punto di vista si capovolge, schiacciando il ragazzo in basso, contro il suolo. Si tratta di una sequenza davvero miracolosa, che realizza una specie di unione mistica tra l'uomo, la sua terra e l'intero creato, al pari di quella, altrettanto stupefacente, della Passione, la quale si snoda sullo sfondo dell'appassionato monologo di Andrej e rappresenta, con il suo Gesù vestito di panni ruvidi e pesanti, la faccia da animale impaurito, che si ferma lungo la via crucis per mangiare la neve, per nulla grandioso se non nel suo umanissimo e straziante dolore, l'autentico e profondo atto di fede del regista russo nei confronti del suo popolo e della sua patria.

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