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Questo è il primo film di Kurosawa ambientato nel Medioevo giapponese. Di particolare ha il fatto che fu concepito e girato durante la catastrofe del Giappone alla fine della II Guerra Mondiale, con i bombardamenti atomici e l’occupazione americana. S’imponeva quindi la necessità di fare economia di mezzi. Kurosawa decide allora di prendere spunto da una famosa pièce teatrale che narra del tentativo di un principe e dei suoi sei samurai, braccati e ricercati, di attraversare un posto di blocco senza essere riconosciuti. Per farlo si travestono da monaci, ma l’impresa si rivela tutt’altro che facile, anche se alla fine hanno successo. Il merito è tutto del grande sangue freddo di Benkei, il samurai-guida, quello più esperto, ma anche quello più elastico e “umano”. I primi minuti sono quindi di tensione e attesa. La scena al posto di blocco non delude lo spettatore. Benkei si comporta in maniera perfetta, non grazie a forza fisica o capacità sovrumane, ma soprattutto per la grande forza d’animo, l’autocontrollo e il coraggio. Per salvare il suo signore ad esempio non esita a infrangere una proibizione assoluta (il rispetto corporale). Il messaggio è chiaro: non conta la forma, la regola astratta, ma la sostanza e il fine che ci si propone. Quest’azione coraggiosa costa però grande dispiacere e dolore a Benkei, rivelandolo un essere molto umano, non certo un tipo granitico, tutto d’un pezzo. La novità di questo film è però il fatto che tutta la vicenda seria è contrappuntata dalle azioni comiche e popolaresche di un contadino-portantino di grande vivacità e espressività. Qualcosa tipo Totò. Kurosawa riesce però nell’impresa di rendere quest’aggiunta non una presa in giro o una parodia della vicenda (come erano i film storici italiani con Totò), ma un modo per rafforzarla, per darle una dimensione più umana e simpatica e meno mitica o paludata. Già con questo terzo film di Kurosawa si profila la grande caratteristica del suo cinema: l’umanità. Sugata Sanshiro è visto soprattutto nei suoi conflitti e nel suo sviluppo interiore; pure nel film di propaganda delle ragazze operaie il lato umano è quello più curato e approfondito. Anche qui, in un film di samurai, il protagonista è proprio il conflitto interiore. Il film dura solo 60 minuti e ed è girato quasi completamente in interni. Tutto il suo fascino è affidato ai primi piani e alla recitazione degli attori, i quali non deludono, anzi sono strepitosi. Kurosawa si affeziona a certi attori e sa come valorizzarli. Benkei è interpretato in maniera superlativa da Denjiro Okochi, (il maestro di Sugata Sanshiro). Fra i samurai troviamo Takashi Shimura (Vivere) e Masayuki Mori (L’Idiota). Non poteva mancare lo splendido Susumu Fujita, cioè l’interprete di Sugata Sanshiro. Eccezionale anche l’attore comico, una via di mezzo fra Jerry Lewis e Totò. Per il resto molto va perso, ad esempio andrebbe visto in giapponese (lingua molto sonora) e soprattutto non viene colto molto del significato del folklore e delle usanze giapponesi (a loro salta all’occhio essere monaci o samurai, a noi occidentali no).